giovedì 29 settembre 2016

Accadde a Gela - Un giocatore lo vedi dal coraggio

ABA è l’acronimo inglese che sta per Applied Behaviour Analysis, cioè analisi applicata del comportamento.
Importata dall’America, dove il più importante riferimento di oggi è il prof. Vincent Carbone, l’ABA è definita come la scienza nella quale i principi dell’analisi comportamentale sono applicati con sistematicità per migliorare i comportamenti socialmente rilevanti e nella quale la sperimentazione è utilizzata per identificare le variabili responsabili del cambiamento nel comportamento.
Io, però, non sono né una neuropsichiatra, né una psicologa, né niente di affine a tutto questo. Quindi, traduco l’ABA a modo mio, con beneficio d’inventario e assoluta consapevolezza dei miei limiti.
L’ABA è qualcosa di estremamente simile alla storia del cane di Pavlov. Dagli e ridagli, Pavlov fu capace di generare uno stimolo condizionato, cioè fece salivare un cane dietro condizionamento del suono di una campanella associato all’atto di nutrirlo. 
Ciò che inizialmente è stato fatto con Pietro non si discosta enormemente da questo. Per diversi mesi mio figlio fu studiato da una psicologa del comportamento e da due operatrici, allora studentesse, oggi dottoresse.
Loro, con passione, dedizione e un desiderio di risultati che non può essere liquidato semplicemente come “professionalità”, hanno lavorato intorno a mio figlio quotidianamente, prendendo in carico tutta la nostra famiglia (tata compresa), educandoci ed insegnandoci con pazienza e con delicata fermezza l’arte di trattare con un bambino, che non sapeva dire mamma, ma contava da 1 a 100 in italiano ed in inglese e faceva le somme all’età di due anni e mezzo.
È una scienza l’ABA? L’Istituto Superiore di Sanità lo liquida come un trattamento, ancorché lo indichi come il migliore ed il più accreditato. Sarà perché ho assistito ad almeno due miracoli, fino ad oggi; sarà perché, avendo usato il metodo nella cooperativa che dirigevo, ho visto i miei bambini fare progressi incredibili; sarà perché tutte hanno investito il loro sapere e la loro forza nell’aiutare questi bambini e queste famiglie.
Da ingegnere penso che più che una scienza sia un approccio derivato da una scienza. Da madre credo che questo approccio possa restituire molta vita ai bambini ed alle loro famiglie alla sola condizione di usarla come un’artista utilizza una tecnica: con competenza e spregiudicatezza, senza fermarsi mai al solo virtuosismo realizzativo. Sapendo che l’opera d’arte costerà tanto, in termini di soldi, di dolore, di fatica. E sapendo altresì che il risultato sarà il migliore ottenibile in funzione delle risorse a disposizione: dal tempo (come età del bambino e come ore di trattamento settimanali), ai soldi, conseguentemente, alle potenzialità stesse del piccolo (che di primo acchito sono veramente difficilmente stimabili), alla coerenza con cui tutti coloro che educano il bimbo interagiscono con lui. Il neuropsichiatra dell’AUSL che – dopo un incomprensibile “missing” dell’azienda sanitaria, ha finalmente in carico mio figlio, ha sintetizzato bene l’idea parlando di “compagnia teatrale” e di “rappresentazione” a favore di Pietro. Proprio così: la compagnia deve essere affiatata, i ruoli chiari, la collaborazione totale, gli obiettivi condivisi. Proprio per questo, la compagnia deve essere selezionata con cura ed attenzione e questo è oggettivamente difficile e necessita anche di una buona dose di fortuna.
Se non fosse rischioso di questi tempi chiamare in mezzo il calcio, mi verrebbe da parlare di spirito di squadra e di campioni.
L’ABA, di per sé, non credo che sia sufficiente per realizzare un miracolo come quello che abbiamo vissuto noi.
Coraggio, altruismo e fantasia sono veramente le parole che caratterizzano le persone che si sono prese cura di Pietro. Le sessioni al centro commerciale, sul pullman, al parco giochi. La tenacia e l’inventiva per insegnare a Pietro ad essere un bambino normale.
Come un macchinario medico di ultima generazione, l’ABA non è nient’altro che lo strumento migliore e più innovativo nel trattamento dell’autismo. Chi lo pratica non è necessariamente un fuoriclasse. Certo, nella mia vita ho incontrato veramente alcuni fuoriclasse e comunque credo di dover ringraziare mio figlio per la quantità di cose che per mezzo suo ho potuto imparare.

martedì 27 settembre 2016

Accedde a Gela - Un amico come Thomas

Pietro non sorrideva mai. Era capriccioso, violentissimo nelle sue reazioni ostili: picchiava se stesso e gli altri e per quanto potesse procurarsi lesioni, sembrava che nemmeno se ne accorgesse, sembrava che non gliene fregasse niente.
Gli oggetti avevano un ordine immodificabile. Fare le pulizie in camera sua era un vero rischio. Se qualcosa risultava fuori posto, la crisi era garantita.
Non diceva una parola. Usava la mia mano come un mouse, con il quale indicava o prendeva le cose. Non provava interesse per nessun oggetto, se non rotolava o non poteva essere messo in una fila omogenea. Finché un giorno Francesca, moglie inglese del nostro italianissimo amico Stefano, portò nella nostra vita il trenino Thomas.
Se non ne avete mai sentito parlare, il reverendo Awdry (seguito poi da suo figlio) a partire dal 1946 ambientò sull’isola di Sodor le avventure di un’intera ferrovia di locomotive, a vapore e diesel. Storie per bambini che nel mondo oggi hanno ancora un’eco impressionante e migliaia di caratteri realizzati per giocare e poi film, dvd e merchandising puro.
Thomas ed i suoi amici hanno facce molto caratteristiche ed appassionano follemente i bambini autistici. Chissà come mai. Forse perché sono così caricaturali; forse perché sono buffi; forse perché sono piuttosto lenti e facilmente comprensibili. Tommy, un “vecchio” amico di Pietro, li liquidò con una sola parola: “noiosi”.
Testimoniano l’interesse dei bambini autistici verso il trenino Thomas due fatti sintomatici: un libro (“Un amico come Henry”, che io consiglio di leggere a tutti i genitori che hanno bisogno – come ho avuto bisogno io – di credere e di sperare) ed un’iniziativa in Australia della HIT Entertainment, che distribuisce i film di Thomas (http://www.thomasandfriends.com/au/Thomas.mvc/WhatsNew).
Thomas è stata la vera, grande ossessione di Pietro. Thomas è stato altresì il suo salvatore. Il cavallo di Troia che abbiamo usato per scardinare attraverso questo metodo comportamentale, l’ABA, la fortezza in cui viveva recluso.
Quindi, Thomas avrà sempre un posto speciale nel nostro cuore; per ora ci siamo limitati a celebrarlo tra le mura domestiche attraverso la più articolata rappresentazione lignea della ferrovia di Sodor.

sabato 24 settembre 2016

Accadde a Gela - La lista

Mio padre è morto. Questa è una notizia relativamente fresca. È successo, è vero, ma poco più di 20 anni fa. 
Chi lo avesse incontrato nel pieno delle sue forze, avrebbe conosciuto un bell’uomo in stile tirolese, tendenzialmente un po’ arruffato, camicie di lana e pantaloni di velluto.
Così finalmente l’ho rivisto nell’ultimo sogno in cui siamo stati insieme: nel bosco dietro casa di mia zia a Collalbo ci siamo incamminati finché non abbiamo raggiunto un villaggio; qui, tra casette e giardini recintati in legno vivevano tantissimi bambini che giocavano felici e beati. Mio padre mi disse: “Questo è il mio compito: insegno a vivere ai bambini che non hanno potuto farlo”.
Con queste parole, più o meno, il sogno è finito. Al risveglio, non so perché, ho avuto la sensazione che quello che mio padre aveva avuto per sé sarebbe stato anche il mio compito. Mai pensiero fu, credetemi, più profetico di questo.
Così risalgono al 2003 circa i primi fogli di calcolo, i primi conti, i primi dettagli e le stesure del progetto che (incredibilmente ed inconsapevolmente) avrebbe avuto in Pietro soggetto e complemento oggetto e che ha segnato la mia vita ed il mio viaggio interiore con un tratto assolutamente indelebile.
All’epoca cercavo un fulcro che non riuscivo a trovare. 
Per molti anni mi sono domandata perché da quell’idea embrionale io non riuscissi a trovare lo slancio per costruire qualcosa veramente. Alla fine del 2009 mi è arrivata la risposta ufficiale.
Nel 2003 però questi pensieri erano poco più di un gioco, qualcosa che mi riempiva i buchi (pochi) di una vita da consulente lontana da casa.
Nicolò era già presente nella mia vita.
Nel corso del tempo ho imparato a fare numeri su numeri, ma poi non bastava mai e quello che è stato un passatempo è diventato materia d’interesse e di approfondimento: la pedagogia e gli aspetti patologici dello sviluppo dell’individuo. È ovvio, resto solo un ingegnere, che per passione prima e per necessità poi ha letto e studiato di tutt’altre materie.
Per questo dico che quando ad aprile 2007 Pietro si tagliò il piede la diagnosi nella mia mente fu immediata: quel male lo avevo già sentito, letto, studiato, conosciuto. Ora, solo, ce lo avevo davanti in carne ed ossa.
Vi confesserò anche che quando due anni dopo arrivò finalmente una neuropsichiatra a sostenere per iscritto quello che avevo invocato così lungamente, la parola autismo – associata a mio figlio – mi suonò in testa come una liberazione. Finalmente, dopo anni di anticamera, il nemico aveva un nome ed io una missione. Anzi, facciamo due: una era salvare mio figlio; l’altra era salvare me stessa e l’unico modo per farlo era costruire, come Schindler, la mia lista.

giovedì 22 settembre 2016

Accadde a Gela - Il cielo stellato sopra di me...

Al momento in cui scrivo, sono nata 41 anni fa. Non entro nel merito della mia vita personale, del modo in cui sono cresciuta e cambiata, ma penso che alcuni scorci siano necessari per comprendere meglio quello che è successo poi.
Mia madre ci ha cresciuto con lezioni quotidiane. Mio padre, invece, era più da insegnamenti una tantum, epocali. 
Mia nonna materna era fascista convinta, classe 1903, e questo per gli eventi successivi non sarà un dettaglio marginale. Ad esempio, proprio in risposta credo a quest’ultimo fatto, mia mamma studiò filosofia in Statale a Milano, negli anni in cui la frequentava, per intenderci, Achille Occhetto. Mio padre invece politicamente era, semplicemente, bastian contrario. Io, personalmente, penso di essere quindi il risultato di questa combinazione: convintamente riformista, pietosamente affascinata dal ciclo dei vinti, perennemente in difesa di chi ha già perso.
Mio padre diceva di me che butto il cuore al di là degli ostacoli. Mia madre aggiungeva: “senza riflettere”. 
Complessivamente, comunque, tutti abbiamo sempre pensato che avrei dovuto occuparmi di sociale e terzo settore.
Per questo, avendo ereditato anche alcuni aspetti caratteriali tipici del mio papà (tipo quelli di cui sopra), mi laureai in ingegneria ed imboccai la strada della consulenza: Accenture, innovation delivered. Finché non sono rimasta incinta di Pietro.

mercoledì 21 settembre 2016

Accadde a Gela - Il primo segnale

Aprile 2007. Pietro non dorme se non tre quarti d’ora ogni tre ore di veglia durante la notte. Nel giorno, un sonno di più di 20 minuti è impensabile.
Non lo posso toccare. È sempre incazzato. Non mangia. Vuole stare in piedi. Ci costringe a metterlo nel girello e passa il tempo saltandoci dentro. Ancora oggi, il suo soprannome è “Pulcis”.
Quel giorno siamo da soli in casa. C’è caldo e lui è a piedi nudi sul pavimento. Gioca con una porta. Fin da piccolo ha un’attrazione smodata per ciò che ruota. L’alluce destro gli rimane incastrato sotto; lo forza per farlo uscire. C’è sangue dappertutto. Lui non dice nemmeno “Ba”. Dentro di me la diagnosi è immediata: autismo. Il bambino ha sette mesi. So che è presto, ma ne parlo con Nicolò, che mi dice che sono troppo apprensiva, che il bambino ha bisogno dei suoi tempi per crescere, che le cose cambieranno e lui si tranquillizzerà.
Io aspetto, ma lui non si calma ed ogni cosa diventa per noi, da affrontare, un po’ più difficile.
Per questo bimbo ho smesso di lavorare. Mi sono licenziata senza paracadute. Sono tornata da Roma, dove vivevo, a Piacenza, in the middle of nowhere. Senza un’occupazione, senza un posto, incapace ed inadeguata a prendermi cura di lui.
Per mia enorme fortuna, in quell’aprile 2007 il comune di Piacenza torna al voto. Mia sorella Barbara, allora responsabile provinciale dell’organizzazione nei DS, mi propone di darle una mano per la campagna elettorale del sindaco che poi sarà riconfermato. Sarò responsabile del corner elettorale. Per un paio di mesi, almeno, avrò un ruolo sociale. Poi, si vedrà.

martedì 20 settembre 2016

Accadde a Gela - Piacenza, 23 aprile 2010

Pietro, 3 anni, 6 mesi e 3 giorni. Autistico. Dopo circa 6 mesi di trattamento ABA, i primi risultati incoraggianti. Inizia a dire alcune parole; diminuiscono le crisi; la violenza eterodiretta e l’autolesionismo incominciano a dare cenni di rarefazione.
Io mi chiamo Benedetta; Pietro è mio figlio. Alla data, ho 35 anni, solo 4 in più della mamma di Gela. Di professione, da sei mesi, faccio la “madre coraggio”. Deve essere perché nei tre anni precedenti non sono riuscita ad essere, semplicemente, “madre”.

venerdì 16 settembre 2016

Pensierino del 16 settembre 2016

Pensierino della Benny:

Ieri ho portato mio figlio al suo ultimo primo giorno di scuola alle elementari.

Mentre eravamo in macchina, abbiamo ripetuto insieme i nostri 2 comandamenti:

1) l'autismo è la mia forza ed io sono uno Jedi: non cedo al suo lato oscuro.
2) ho fiducia in me perché sono bravo.

Ci sono voluti anni per arrivare fino a qui. Ma il traguardo è valso il biglietto.

Accadde a Gela - Nato due volte

Pietro è nato il 20 ottobre 2006, in provincia di Piacenza, dopo una gravidanza a rischio e faticosa. Al sesto mese circa, in epoca da morfologica, mi hanno comunicato che i ventricoli cerebrali erano al limite superiore della dimensione di norma e che se la cosa non rientrava il bambino poteva nascere idrocefalo. Le quattro settimane successive io e mio marito le abbiamo passate avanti e indietro da Fidenza; alla fine è andato tutto bene. Siamo stato felici di non aver detto niente alle nostre mamme. Non sapevamo ancora nulla di quello che ci aspettava poi.
Dopo una minaccia di parto prematuro ed un mese e mezzo di tocolitici, vado in ospedale per il day hospital prima del fatidico giorno. La data prevista era il 4 novembre. Invece, il 19 ottobre a mezzo giorno il ginecologo mi dice che il bambino non è più cresciuto, che è “in sofferenza”, che è meglio procedere alla stimolazione del parto, se vogliamo essere sicuri che sopravviva. Ma, aggiunge, “la scelta è sua; deve farlo in coscienza”.
Il viaggio di ritorno da Fiorenzuola a Piacenza è in un bagno di lacrime. Nicolò guida ed io piango, infinitamente, senza tregua.
Mi chiama mia sorella Federica, poi mia sorella Barbara. Lei è a Piacenza e corre a casa nostra, dove già è lì praticamente quando la nostra macchina varca il cancello del giardino.
Barbara non ha la patente, all’epoca, né figli. Ma viene ad aiutarmi a fare la valigia per l’ospedale. Mi aspettano indietro entro le 14,30. 
Io continuo a piangere e Barbara ripone i vestiti (tutti sbagliati) in una valigetta Chicco pensata per mamme tulle e chiffon e destinata ad una donna che ci avrebbe messo altri tre anni a diventare per la seconda volta (e finalmente quella vera) madre dello stesso bambino.
Quando arrivo in ospedale, prendo possesso di una stanza (la mia prima stanza) in cui sono da sola. Per quanto mi riguarda, mi sento fortunata. Alla televisione l’allora ministra Turco predica in un’intervista la terapia del dolore per tutte le puerpere mentre un’ostetrica integralista del parto naturale – dopo avermi adeguatamente stimolato con l’ossitocina – mi spiega che mi devo muovere come il toro sul letto. Questa è la posizione antalgica. Ed io dondolo, dondolo, dondolo e non succede nulla ed amen.
Mio figlio è nato il 20 ottobre alle 20.45. La mia gestazione naturale è durata 26 ore di posizione antalgica ed ha portato ad una divaricazione (con l’aiuto delle pomate del caso) di ben 1,5 cm. Alle 20 del 20 la dottoressa di turno mi dice che vogliono fare un’ulteriore ciclo di ossitocina. Io ripenso “in sofferenza”. Prendo il cellulare, chiamo il mio ginecologo e gli comunico che se non viene immediatamente a farmi un cesareo, ci penso io, ma non garantisco il risultato. E, come lui disse a me il giorno precedente, aggiungo: “Ma la scelta è sua; deve farla in coscienza”.
Mezzora dopo sono in camera operatoria ed il bolo inutilizzato dell’epidurale viene sostituito dall’ago della spinale.
Nasce, piange, respira. 2 chili e 75 di bambino. Praticamente, una borsetta di Fendi che, come ogni borsetta, non manifesta nessuna intenzione di attaccarsi al seno, mentre la mia ottava misura costituisce l’orizzonte del mio sguardo.
Il lunedì mi preparo per uscire. Le visite di rito in pediatria. Il primario, ignaro dei nostri trascorsi, mentre sto attraversando la soglia per andarmene (in una mano il trasportino e nell’altra la valigia) mi rincorre e mi dice, testualmente: “signora, mi sono dimenticato di dirle che il bambino ha un problemino al cervello, niente di che: una cisti, una sacca d’acqua”. Ma alla parola “cervello” io non sentivo più niente, se non un prepotente fischio nelle orecchie. È così che ho perso le mie 8 misure di latte.
Per un anno, abbiamo fatto ecografie e monitoraggi per verificare se si riassorbiva. Si è riassorbita.

Accadde a Gela - Gela, 23 aprile 2010

Tratto da Repubblica.it

“Non regge l'autismo dei figli; li butta in mare e li fa annegare. La donna, 31 anni, si era da poco separata, stamattina ha fatto annegare i piccoli di due e nove anni. Nel suo ultimo messaggio pubblicato su facebook parlava di come "cercare di stare meglio possibile"

dal nostro inviato ALESSANDRA ZINITI

GELA (Caltanissetta) - Non voleva suicidarsi, voleva proprio uccidere i suoi bambini e far cessare quello strazio al quale non sapeva far fronte da sola. Vanessa Lo Porto, la giovane donna che ha annegato stamattina i suoi bambini di due e nove anni nel mare di Gela, aveva da poco scoperto che anche il piccolo, Pio Andrea, era autistico. La stessa malattia della quale soffriva anche il primogenito, Rosario. Vanessa, disoccupata e rimasta sola dopo la separazione dal marito, l'operaio 42enne Marco D'Augusta, è andata in depressione e ieri mattina ha portato con sé i bambini fino alla spiaggia di Manfria, sei chilometri fuori dall'abitato di Gela, e li ha annegati. Polizia, carabinieri e guardia di finanza, fino ad ora, hanno recuperato solo il corpo di Rosario.
L'ultimo messaggio di Vanessa, nella sua pagina di facebook, era quasi un'esortazione a farsi forza. "Quando non si può tornare indietro, bisogna soltanto preoccuparsi del modo migliore di andare avanti. Non si può scegliere come sentirsi, ma si può fare sempre qualcosa per cercare di stare meglio possibile". Nulla lasciava presagire il gesto folle di Vanessa Lo Porto. La ragazza, dopo aver annegato i figli, è entrata e uscita più volte dall'acqua, poi ha chiamato i carabinieri. "Venitemi a prendere, ho ucciso i due figli". Poche ore dopo, sedata sotto choc nell'ospedale di Gela, si è vista notificare un ordine di custodia cautelare per duplice omicidio.”

mercoledì 14 settembre 2016

The Social Tycoons - Il ritardo

Mentre consumava la suola delle scarpe intorno all'area di cantiere, continuava a tornare infastidito con la testa a quella cesata. Rise pensando al suo nipotino, Paolino, piccolo, bello e solare, che, come ogni volta quando lui si rabbuiava, vedendolo gli avrebbe detto "Cos'hai nonno, pizzica il senso ragno?". Almeno per qualcuno era un supereroe. E forse Paolino aveva ragione, perché in fondo proprio un supereroe ci voleva a sopravvivere a questa crisi che non molla mai, che ha morso chiunque nella carne, che ci ha lasciati tutti più poveri, più scemi, più soli.
Guardò l'orologio indispettito. Già mezzora di ritardo e nemmeno il cenno di una chiamata per scusarsi, per dirlo almeno.
Tornò sui suoi passi e dopo qualche cento metri s'infilò giù nella cesata bucata. Sto facendo una cazzata, si disse. In effetti, non c'era ragione per cui non aspettare che arrivassero quelli, per entrare dalla porta principale, mica come un ladro. E poi, per non entrare solo, soprattutto. Ormai non era più un ragazzino ed il passato di boxeur, sì insomma, piazzato era sempre piazzato, ma la birra aveva fatto il suo corso...
Mentre faceva tutti questi pensieri, ormai si era completamente addentrato nell'ala ovest dell'area. L'erba era schiacciata, come se ci fosse stato fatto strisciare su qualcosa: un sacco, un materasso, non so. Non sarebbe certo stata la prima volta. Arriva alla piattaforma di cemento. Continua. Si vede meno bene. Va verso di là. Ecco, non si vede più niente. E adesso? Chiamo i metronotte? Mavaffanculo, và, pure ai metronotte. Andiamo a vedere i padiglioni. Tanto so riconoscere a vista se c'è entrato qualcuno.

lunedì 12 settembre 2016

Pensierino del 3 settembre 2016


Pensierino della Benny

Le persone migliori che conosco non riescono proprio ad avere il successo che meritano, secondo la definizione che ci hanno passato i nostri genitori. Probabilmente perché il mondo non è un posto "d'onore" e le promesse non si mantengono.
Certo fa bene chiudersi nelle cose piccole quando quelle grandi sono così ammalorate. Volevo cambiare il mondo, invece sono cambiata io.

Pensierino del 4 settembre 2016

Pensierino della Benny
No ma io dico che gente che gli han detto:
- faccio due passi col tir sul lungomare a consegnare gelati
- prego vada pure

faccia ironia su un terremoto, mi sembra che abbiamo perso un po' il senso delle cose...

Pensierino del 5 settembre 2016

Pensierino della Benny:

Scoprire che la signorina Giulia Salemi proviene da Piacenza mi ha provocato un po' di imbarazzo e comunque vorrei sapere il nome del suo migliore amico stilista emergente, per non frequentarne la boutique.

Pensierino del 12 settembre 2016


Pensierino della Benny:

Stanca, incommensurabilmente stanca delle bugie che ci strisciano attorno ogni giorno, che ci raccontano, che ci si racconta, che alla fine ci convincono, per spossatezza, così, per assedio.
Ho una punta di dolore sotto al fegato, lì, dove la mia nausea è fermentata e maturata come un vino pregiato, fino a trasformarsi in rabbia pura, balsamica.
A tutta questa allergia c'è una ragione.

lunedì 5 settembre 2016

Volevo fare l'artista - Introduzione

Ho iniziato a interessarmi di materiali, strumenti e tecniche di trasformazione o rappresentazione della realtà fin da bambina. Avevo molto tempo da passare con me stessa e con i miei fratelli più grandi, soprattutto nelle lunghe estati vissute nella nostra tenuta in Val d’Orcia. Ad essere completamente onesti, ho vissuto letteralmente “immersa” in un clima familiare estremamente propenso sia alla techne sia alla tecnica (che da techne appunto deriva), cioè all’arte in ogni sua accezione ed alle sue “modalità attuative”. Naturalmente, era difficile per me bambina rendermi conto di questo, perché semplicemente pensavo che fosse una condizione normale; ovviamente, non avevo ancora maturato gli strumenti per comprendere quanta fortuna e quanto privilegio abbiano caratterizzato la prima età del mio sviluppo.
La mia era una famiglia ancora antica nei modi e nelle consuetudini. L’educazione di tipo “tradizionale” che prevedeva il clichè della nonna paterna – la "Oma", di chiare origini teutoniche - declinava per ogni giorno della settimana una diversa lingua in cui ci era consentito rivolgerci alle nostre Tate: il lunedì in italiano, il martedì in francese, il mercoledì in inglese, poi il tedesco e poi di nuovo l’italiano, il francese e l’inglese e, poiché il tedesco era in fondo l’unica lingua con cui ci era concesso parlare con la Gomama – era la sua lingua madre –poteva saltare un giorno della settimana.
Oltre ai vincoli linguistici c’erano altri confini all’interno dei quali dovevamo muoverci con un’attenzione ed una precisione felina. Vincoli di galateo, ovviamente. Regole rigide di comportamento e di rispetto dei ruoli “sociali” nella famiglia e con le persone che la frequentavano più o meno assiduamente o con i loro – talvolta per niente simpatici – figli e nipoti.
Tra le costrizioni di etichetta, c’era ovviamente lo studio delle belle arti, a cui i miei fratelli volentieri si sottraevano in ogni circostanza in cui la cosa fosse possibile. D’altro canto, mia nonna lasciava di buon grado che loro si ritirassero, poiché riteneva queste materie più consone ad un animo docile ed accogliente, tipico nei suoi piani di una ragazza a modo quale avrei dovuto diventare io. E pur essendo soddisfatta dei risultati che conseguivo negli studi di belle arti (ma per nulla in quelli musicali), guardava con minor buon animo all’attrazione che provavo verso le attività più propriamente artigiane che popolavano il borgo. Tuttavia, con la complicità dei miei fratelli più o meno quotidianamente riuscivo a fuggire dal cancello che separava il “dentro” dal “fuori” e mi infilavo nella bottega del falegname, del fabbro o nelle stalle dei contadini per guadagnare quell’odore di campagna che ancora adesso – a più di sessant’anni di distanza – mi fa sentire straordinariamente “a casa”.
Per chissà quale motivo, bambine della mia età non ce n’erano al borgo, mentre c’erano orde di ragazzini con cui i miei fratelli facevano comunella. Anche io ho preso parte a diverse escursioni, ma il fascino più grosso su di me lo esercitava quel piccolo impercettibile filo rosso che collegava le arti più nobili - che studiavo ed esercitavo quotidianamente – ai mestieri più utili, che scandivano il ritmo della vita e della campagna.
Questo – va da sé – non ha fatto di me un’artista affermata né minimamente conosciuta; non ha fatto di me neppure una restauratrice di pregio, nonostante abbia passato tanto tempo nel mio laboratorio a restaurare, ricostruire e sistemare mobili. Il mio più grande museo sono i luoghi in cui vivo, letteralmente invasi delle mie produzioni pittoriche, scultoree e soprattutto delle mille realizzazioni strampalate che ho progettato e costruito e che nel tempo sono andate ad alimentare il mio “cosario”.
Mi trovo oggi ad un’età meravigliosa, la terza, in cui non è più necessario dover dimostrare a me stessa in nessun modo di essere qualcosa, perché posso guardare indietro con indulgenza al mio passato, per valutare bonariamente ciò che sono stata e conseguentemente ciò che sono diventata. In fondo, buona parte della vita mi ha graziato permettendomi il lusso di coltivare le mie passioni senza l’esigenza di particolari apprezzamenti o elogi, se non quelli che privatamente mio marito ed i miei figli ancora mi riconoscono, non senza un pizzico d’affettuosa ironia.
Ma questa età mi consente la saggezza, guardando ai miei nipoti ed ai loro amici, di ri-innamorarmi di quel filo rosso e di vedere quanto poco d’arte e di creatività quotidiana sia intorno a noi.
E mentre il web si carica di filmati DIY (un esortativo “fattelo da te”), viene considerato normale dover comprare un kit per fare qualunque cosa, come se prima dell’avvento di questi kit la conoscenza fosse custodita gelosamente al pari della messa in latino.

Da nonna e prozia quale ormai sono, in tanti anni ho condiviso con le nostre nuove generazioni familiari sprazzi di quella conoscenza. Così, questi anni di insegnamento “informale” mi hanno spinto a pensare di farlo anche con un pubblico più ampio, passando alcune tecniche basilari, alcuni trucchetti, alcuni progetti che possono essere facilmente realizzati, per riappropriarci di una dimensione più umana della creatività e dell’arte, senza schifare i prodigi che il progresso tecnologico ci ha messo a disposizione. Nel frattempo, tra vecchi ricordi rispolverati e piccole nozioni, incamminiamoci perché ciascuno può essere creativo, anche senza dover essere famoso.

Divagazione sulle tecniche pittoriche e sulla relazione che dovreste avere con loro (secondo me)

Dal momento in cui l’uomo ha iniziato a lasciare tracce di sé e della sua vita, le tecniche pittoriche si sono moltiplicate. Ovviamente, con il progresso i materiali sono stati modificati in modo da essere sempre più performanti e lo stesso può essere detto per gli strumenti ed i tipi di colore, di supporto, le possibilità espressive e tutto il resto.
Guardano le cose sotto il profilo meramente economico, il vantaggio della globalizzazione è che i costi sono crollati. Ovviamente, non ci si può aspettare da un pastello o da un acrilico di sottomarca le stesse prestazioni di una marca da artisti “veri”, ma tuttavia è possibile avere buoni risultati soprattutto in fase di sperimentazione e studio, tenendo materiali e strumenti migliori per quando anche noi saremo alla loro altezza.
Dovessi dirvi la verità, io personalmente me la sono sempre cavata con acquisti di media categoria, senza andare eccessivamente nel professionale e senza scadere nei materiali da ipermercato, che oggettivamente non possono essere utilizzati nemmeno per una scuola materna. In effetti, questo è un punto piuttosto delicato: se è vero che non serve investire un patrimonio per poter iniziare a creare qualcosa, è altrettanto vero che prodotti di scarsa qualità aumentano le possibilità d’insuccesso e la frustrazione conseguente, con il rischio che si decida di abbandonare i tentativi attribuendo a se stessi una maggiore responsabilità o incapacità rispetto alle proprie effettive possibilità. Esiste, come in ogni cosa, una regola fondamentale da seguire: in medio stat virtus; usate il buon senso.
Se facciamo una ricerca su Wikipedia alla voce tecniche pittoriche, il risultato è impressionante. Interrogato, ciascuno di noi potrebbe dire: acquerello, tempera, olio, acrilico, pastello, carboncino, affresco, ma l’elenco è veramente ampio.
Come potrete facilmente immaginare, ogni tecnica pittorica merita una trattazione approfondita ed a parte e quindi sono ben lungi dal voler affrontare io in questo libro tutte le tecniche. Poi, per essere davvero onesti, devo ammettere ad esempio che all’acquerello sono un cane, mentre con tempere, acrilici ed olio me la cavo, o almeno riesco a stenderli sul supporto senza proprio far sembrare l’esito una “crosta”. Ancora, un affresco vero e proprio non l’ho mai fatto; il massimo che ho fatto in questa direzione è stato di divertirmi a sperimentare la pittura a tempera su supporto fresco di argilla sintetica e di cartapesta. Capite dunque che non sono la persona più adatta a suggerirvi come riprodurre la Cappella Sistina in casa vostra. Tuttavia, se volete fare un trompe l’oeil, sì, questo l’ho fatto e quindi possiamo parlarne.
Ad ogni modo, quello che vorrei evidenziare in questo capitolo è che per ogni tipo di progetto si voglia affrontare una seria fase di preparazione non può essere evitata e, soprattutto, ogni tecnica pittorica deve essere approfondita di per sé, individualmente, attraverso tentativi su tentativi. Quindi, se ad esempio volete concentrarvi sul pastello (prendo questo come esempio perché il paradosso può essere fatto facilmente), non è necessario che investiate una vita nel disegno della base da colorare. Potete predisporne una e poi riprodurla serialmente o voi direttamente o attraverso una fotocopiatrice o rivolgendovi ad un negozio specializzato e potete far riportare il disegno su diversi tipi di carta, più leggera, più pesante, più liscia o più ruvida, più grande o più piccola, per sperimentare, finché non sarete sufficientemente soddisfatti dei risultati ottenuti da poter iniziare ad “assemblare” le esperienze e le abilità che avete maturato.
Questo, peraltro, vi darà l’opportunità di accedere alle cosiddette “tecniche miste”, che permettono di mettere insieme le più diverse tecniche e materiali in risultati sorprendentemente aggraziati e gradevoli, che voi stessi da voi non vi sareste mai aspettati. Perché in fondo, l’unica cosa che dovete sempre tenere a mente è che è la tecnica al vostro servizio e non viceversa.
Io, personalmente, non impongo limiti alla mia fantasia quando penso ad un progetto e - per di più - quando inizio a ragionarci sopra buona parte della mia attenzione è rivolta a capire cosa posso usare di quello che ho imparato per realizzare la mia idea e cosa invece ancora devo imparare, inventarmi o prendere a prestito da altri settori della vita. Quindi, un buon libro sulla pittura ad olio potrà portarvi lontano né più né meno di un manuale di fai da te ed anzi probabilmente un giorno sentirete la mancanza dell’uno, dell’altro o di un terzo.

A questo punto proporrei di introdurre le diverse tecniche pittoriche in relazione ai progetti che affronteremo, dando in qualche modo per scontato tutto quello che non è strettamente legato alla tecnica stessa per procedere lungo il laboratorio. Questo però non prima di aver dato una spolverata veloce al disegno a matita, prima e fondamentale tecnica pittorica senza la quale nulla è possibile.


Il Colore

Siccome non è un libro di divulgazione scientifica, non leggerete definizioni sul colore secondo nessuna delle molteplici discipline che ne trattano (la fisica, la chimica, la psicologia, la matematica, la filosofia e la letteratura nonché – ovviamente – una manciata di altre a vario titolo).
Alcune cose, però, bisogna saperle: i nomi dei colori sono frutto di convenzioni e non tutti li percepiamo nello stesso modo. Questo è legittimo e dipende da come è fatto il nostro occhio (quando è la biologia, la fisiologia o nei casi patologici la medicina ad occuparsi del colore…). Per questo motivo sono state inventate delle scale colorimetriche che attribuiscono dei codici convenzionali ai colori, cosicché all’atto della riproduzione non ci sia possibilità di fraintendimento.
Ci sono alcune nozioni fondamentali non trascurabili (o anche sì, però con la consapevolezza che state trascurando i fondamentali):

  • I colori si dividono in primari, secondari e, addirittura, terziari;
  • I colori primari sono rosso, blu e giallo o meglio magenta, ciano e giallo (e qua già le cose si complicano un po’);
  • I colori secondari si ottengono mischiando tra loro i colori primari a due a due: rosso più blu dà viola, blu più giallo il verde, giallo più rosso l’arancione;
  • I colori terziari sono a loro volta la somma dei colori primari con quelli secondari.
Naturalmente, se vogliamo perderci nelle definizioni e nella comprensione un po’ più approfondita della teoria del colore, ci sono fonti molto più complete e molto più affidabili. A me interessa solo la vostra curiosità.



L’immagine precedente, tratta dal sito Giovane Marmotta, rende piuttosto bene l’idea del passaggio successivo da colori primari a secondari a terziari. Tuttavia, la rappresentazione dei colori che io prediligo è la ruota di Itten.

Johannes Itten è stato un pittore, designer e scrittore svizzero, amico (per un certo periodo…) di Gropius e docente del Bauhaus, ha realizzato la ruota omonima, che ben sintetizza le relazioni tra i colori indicando chiaramente i rapporti di complementarietà. I colori in posizione opposta sul disco cromatico sono detti complementari e sono: l'arancio e il  blu, il giallo e il violetto, il rosso e il verde.


Ogni coppia offre il massimo contrasto e conseguentemente le combinazioni di colori complementari danno immagini più vivide; se utilizzati con sapienza e nelle giuste proporzioni, attraggono l’attenzione dell’osservatore e sono alla base delle tecniche compositive di grandi artisti, quali, ad esempio, i cosiddetti “fauves” (i pittori “selvaggi”), che all’inizio del Novecento diedero vita ad un gruppo in cui le tavole erano composte attraverso la combinazione di soli colori puri, utilizzando il contrasto cromatico per aumentare la percezione visiva. Il gruppo non si raccolse mai in un vero e proprio movimento, né mai stesero delle “intenzioni” o un proprio manifesto programmatico, ma questo non sminuisce l’importanza dirompente delle scelte stilistiche che adottarono, primo tra tutti Henri Matisse.











Un quadro di un paesaggio notturno


Senza porci troppe domande prendiamo spunto da una composizione notturna tra le tante che possiamo trovare su internet.
Non vorrei in questo sembrare poco seria, ma ogni artista fa riferimento ad un portafoglio iconografico che oggi è più che mai a portata di mano proprio grazie alle nuove tecnologie. Cercare opere di autori a cui fare riferimento non è di per sé un peccato. Ciò che è scorretto è “appropriarsi” della paternità dell’opera in qualunque modo o non esplicitare il riferimento culturale. Per il resto, di copie della Gioconda – con buona pace di Leonardo – è pieno il mondo e ogni scuola d’arte, nel percorso d’apprendimento, prevede le copie dal vero di opere d’arte pittorica o scultorea.
Su una tela da quadro distribuite in modo omogeneo un sottile strato di cartapesta e fate asciugare.
Con un foglio di cartavetra sottile (tipo 400) scartavetrate leggermente con movimenti circolari per rendere liscia ed omogenea la base. Abbiate cura di eliminare la polvere che si genera e, subito dopo, passate una mano di primer bianco a base d’acqua sul fondo. È possibile – o auspicabile in alcuni casi – passare più di una mano di fondo, per aumentare l’omogeneità della base, su cui dovrete trasferire a matita il disegno di ciò che intendete realizzare.

Se posso darvi un consiglio, non arrendetevi di fronte al fatto che magari non avete la mano di Michelangelo: esistono dei semplici accorgimenti che vi renderanno possibile disegnare, modificare e riportare le vostre creazioni su tavola con una semplicità che non avreste nemmeno immaginato. Il primo si chiama “carta carbone”: la vendono nelle cartolerie solitamente in formato A4. Era molto in voga, per duplicare i testi scritti, quando non si usava il PC ma la macchina da scrivere. Comprenderete quindi perché io la conosca… Il secondo, più elaborato (serve per imparare a copiare), passa attraverso la “quadrettatura”: suddividete l’originale in tanti quadratini di un lato sufficiente a non perdere i dettagli ma altrettanto non così fitto da essere eccessivo.


Ringrazio il sito Officina d'Arte, da cui ho tratto l’immagine esplicativa, per dare un’idea di quello che intendo.
Altri, più evoluti, passano attraverso tecniche di computergrafica e, esagerando, attraverso un mix di queste e di altre tipiche del decoupage possiamo creare basi evolutissime e quadri mozzafiato. Ma se conoscete queste, non avete bisogno dei miei consigli!
Innanzitutto, una volta steso il disegno, bisognerà procedere per “strati” rispettando la prospettiva. Ad esempio, se c’è nel nostro quadro notturno una luna, qualunque sia la sua forma (piena, mezza, crescente o decrescente), dovrà per forza essere dietro tutti gli alberi. Le nubi le passeranno certamente davanti, quindi dovrete decidere, per entrambi i soggetti (luna e nubi) se dare loro un rilievo o semplicemente dipingerle dopo.
Le parti più grosse, tipo i tronchi d’albero, i rami, la luna (se non la disegnate solamente) possono essere realizzate direttamente con la cartapesta, appoggiandola secondo il disegno che state realizzando. Le parti più piccine possono essere modellate a parte e poi applicate o realizzate con altri materiali (ad esempio pezzi di cartone, di filo di ferro rivestito in carta, etc.) e poi fissati con striscioline di carta bagnate e incollate con colla vinilica.
Una volta terminata la scultura sulla tela, nuovamente bisogna rendere omogeneo il tutto con una o due mani di primer, per poi poterlo dipingere con colori acrilici o tempere.





Un Vaso

In cucina di solito c’è la pellicola trasparente. Prendete un vaso o una bottiglia di plastica vuota: un “negativo” attorno a cui plasmare la vostra opera e rivestitelo completamente, in modo da minimizzare le arricciature del film.
Dopo aver fatto questa operazione, stendete la pasta sul tavolo e cercate di farne una “pizza” rettangolare di un centimetro circa di spessore e delle dimensioni per larghezza e lunghezza del vostro vaso “srotolato”. Avvolgetelo intorno alla matrice, lisciate con le mani unte di olio di lino i lembi di sovrapposizione e applicate sul fondo un disco della dimensione della base del vaso.
Lasciatelo asciugare per 24 ore. Al termine potrete carteggiarlo con una carta vetrata sottile (da 400 ad esempio) e poi dipingerla secondo il vostro gusto.
Per arrivare alla fase pittorica potete operare una prima scelta stilistica. Se volete lavorare con le tempere, ad esempio, o se volete avere una superficie del manufatto liscia, una volta asciutto il vaso può essere stuccato (per semplicità iniziate con uno stucco di gesso già pronto in pasta!), nuovamente carteggiato e poi dipinto e decorato attraverso, ad esempio, le tecniche di decoupage. Guardate un po' nel XIX secolo in Cina cosa sono riusciti a fare...


Primo laboratorio: prendiamo confidenza con la carta

Non abbiamo bisogno di metterci immediatamente alla prova con chissà quali articolate realizzazioni. Facciamo una cosa semplice, che ci permetta di apprezzare la facilità d’uso e poi lasciamo libero sfogo alla nostra fantasia.
In questo laboratorio non faremo la cartapesta a strati: su quella spenderemo due parole alla fine del capitolo, ma nelle infinite sue possibilità di utilizzo è meno affascinante per me della materia da plasmare. Armiamoci dunque di pazienza e di ricetta e prepariamo la nostra cartapesta.

Gli ingredienti per la cartapesta

  • Una ciotola o un secchio tipo quelli da imbianchino;
  • Una pentola grande;
  • Colla di farina, colla vinilica o per carta da parati;
  • Carta vecchia (meglio se carta da giornali: in questo caso ne serve per ogni kilogrammo di pasta finita dalle 8 alle 12 facciate, a seconda delle dimensioni del quotidiano; se no possono andare anche vecchi quaderni, …)
  • Acqua: serve sia per la macerazione sia per la successiva bollitura. Deve essere in quantità sufficiente ad accogliere la carta da macerare.
  • Olio di lino (per dare più lucentezza e morbidezza all’impasto): un paio di cucchiai da cucina per kg di prodotto finito;
  • Gesso in polvere (o farina, o sabbia fina, per aggiungere consistenza): un paio di cucchiai da cucina per kg di prodotto finito.

Il Procedimento di preparazione della pasta

Tutta la carta deve essere strappata nel senso delle fibre, riducendole in pezzi più piccoli possibile. L’acqua deve essere scaldata ed all’aumentare del calore diminuisce il tempo di macerazione. Per un risultato ottimale la carta immersa in acqua bollente può stare anche solo un paio d’ore al macero per poi essere riportata a bollore per circa una ventina di minuti. Terminata questa fase se avete un frullatore ad immersione è la cosa più comoda per frantumare completamente la carta e rendere il tutto una poltiglia omogenea. A questo punto bisogna filtrare il composto, avendo cura di non rimuovere tutta l’acqua. Aggiungete l’olio e il gesso (o in assenza la farina) e poi la colla vinilica in quantità sufficiente ad ottenere un impasto omogeneo e sodo tipo per intenderci il DAS.
A questo punto la pasta che avete realizzato potrà essere conservata in sacchetti di plastica come quelli dei surgelati ed utilizzata di mano in mano. Attenzione però: si conserva per un paio di settimane al massimo!

Gli strumenti di lavoro

  • Un mattarello;
  • Pellicola trasparente da cucina;
  • Un po’ di carta vetrata 400;
  • Un vaso o una bottiglia di plastica (progetto “Un vaso”);
  • Una tela da quadro delle dimensioni desiderate (progetto “Un quadro di un paesaggio notturno”);
  • Colori desiderati (acrilici, tempere, …);
  • Colla vinilica;
  • Carta di giornale;
  • Stracci;
  • Pennelli di varie dimensioni;
  • Carta carbone;
  • Vernice protettiva all’acqua (tipo flatting a pennello o vernice spray).

I Progetti

Poiché l’obiettivo in questo caso è di imparare a utilizzare questa argilla sintetica, innanzitutto è bene manipolarla a lungo, per poter comprendere consistenza, morbidezza, granulosità. Insomma, per conoscere il materiale.
A questo scopo possiamo quindi iniziare a costruire diversi piccoli oggetti. Vediamo come.

Strumenti e materiali di base

Quando si decide di imparare a disegnare (perché SI PUÒ imparare a disegnare) solitamente ha senso farlo con uno strumento di incredibile versatilità, che spesso non è considerato per tutto il suo valore e la sua pazienza: la matita. Ah! Matite ce ne sono migliaia di modelli: tutte di grafite, di legno e grafite, da temperare, autotemperanti (le mine!!! Le piccole mine 0,3 – 0,5 – 0,7…- la misura indica in millimetri il diametro della punta) ma la prima caratteristica che interessa di una matita (indipendentemente dal fatto che si voglia fare un ritratto o rappresentare la sezione del motore di una Porsche) è la sua durezza o la sua morbidezza, dichiarata attraverso una sigla alfanumerica – cioè composta di lettere e numeri – che indica la qualità del segno grafico che essa lascerà una volta passata sulla carta.
Non ho tutte le gradazioni da mostrarvi in casa e per questo mi appoggerò allo schema della KOH-I-NOOR, che per la Regina d’Inghilterra costituisce un problema diplomatico con l’India, per mia madre la marca delle spazzole con cui acconciava i suoi bellissimi capelli fulvi, mentre per me ha sempre per lo più significato il disegno ed il colore. Un po’ come dire Fabriano per la carta. Sono quelle parole che quando le cerchi su Wikipedia portano dritte dritte alla pagina di disambiguazione.

Una volta che sappiamo che una matita 9B sarà decisamente morbida (sporca molto la carta ed è grassa grassa grassa) ed una 9H decisamente dura (se non si sta attenti si arano i fogli da disegno), possiamo dire che per le esigenze di natura artistica è consigliabile partire con una mina da B a 3-4B, mentre per il disegno tecnico tendenzialmente io sono sempre partita con una HB, per le esigenze implicite di pulizia del foglio.
La carta! Uh la carta! Se di matite ce n’è a mille, la carta esagera e si propone in diversi materiali e forme, reagendo meglio per le caratteristiche di questa o quella tipologia ad una tecnica pittorica piuttosto che ad un’altra. Tuttavia, le due principali caratteristiche che distinguono la carta (senza entrare nel merito del materiale di cui è composta, cioè se sia di cellulosa, o di pietra calcarea, o di papiro o di cotone o canapa o …) sono se è liscia o ruvida e la grammatura, cioè il peso al metro quadro; questa unità di misura esprime banalmente in realtà lo spessore della carta stessa, dando per scontata una densità omogenea. In altre parole, se a parità di dimensione (un metro quadro) un foglio della stessa carta pesa 80, 110 o 150 grammi, l’unico parametro che fa la differenza è lo spessore del foglio stesso, che aumentando fa aumentare il peso.
I fogli più sottili tipicamente sono destinati agli schizzi: tratti veloci delle mani per fermare su carta un’idea, un’intuizione, che meriterà di essere approfondita attraverso bozzetti su carte più consone ad una strutturazione compositiva ed agli strumenti grafici prescelti. All’aumentare della grammatura, aumenta la resistenza del foglio.
La carta inoltre può essere più o meno porosa e questo influisce sulla sua igrometria, cioè sulla sua capacità di assorbire i liquidi. Per fare un acquerello, quindi, sarà meglio una carta più spessa e ruvida, mentre per le matite colorate o i pastelli può andare bene anche liscia.
La carta ha ancora una caratteristica interessante: la dimensione. Esistono i “fuori formato”, il che per complementarietà immediatamente ci fa capire che esistono anche dei formati standard. Non c’è un unico standard, ce ne sono alcuni. Lo standard internazionale del formato carta, l'ISO 216, è legato al più famoso numero irrazionale: la radice quadrata di 2. L’A0, che è il più grande prima dei “fuori formato”, misura esattamente 1m2. Gli altri formati a seguire (A1, A2, A3 etc.) sono ottenuti dividendo successivamente a metà il lato più lungo del foglio. Il formato più utilizzato nel mondo normale è l’A4, anche se i quaderni “piccoli” sono A5. Per il disegno, io consiglierei di iniziare con l’A3 salendo progressivamente verso l’A2, tenendo i blocchi A4 ed A5 per gli schizzi immediati o per le caroline in acquerello.
Parlando di carta, però, non riesco a non fare un accenno al cartonnage o, in italiano, cartonaggio, che è l’arte di utilizzare la carta nelle sue più svariate conformazioni e nei più variopinti modelli per ricoprire ed abbellire diversi oggetti, tra cui libri, scatole di cartone e così via. Ci sono poi un sacco di derivazioni, tra scrapbooking, decoupage e varie modalità creative di decorazione che mischiano tecniche più legate alla conoscenza del cartonaggio e della legatoria ed altre più prettamente pittoriche o “scultoree”.
Sono certa che Vittorio Sgarbi storcerebbe il naso oggi a definire oggetto d’arte una scatola lignea opportunamente decorata con stoffe, passamanerie e cristalli Swarovski. Forse non altrettanto severo nel giudizio sarebbe un mercante rinascimentale catapultato ai giorni nostri, ma certo tutti gli Swarovski del mondo non valgono quanto il Koh-I-Noor e tutto oggi, grazie alla meccanizzazione della produzione ed al progresso della tecnologia, è più disponibile e per conseguenza meno prezioso.
Questo tema porta l’attenzione sulla capacità di distinguere l’oggetto d’arte, il cui valore non è o non dovrebbe in prima battuta essere legato al valore dei materiali o dei componenti, dall’oggetto di valore intrinseco – il famoso Koh-I-Noor - dal combinato disposto delle due cose, come può essere un cofanetto ligneo rivestito in foglia d’oro, foderato in broccato e tempestato di pietre preziose, che io – personalmente – non disdegnerei.
Infine, da bambina una delle cose che preferivo era sicuramente la cartapesta.
La cartapesta ti porta a creare forme tridimensionali, mentre quando si parla di carta per lo più si è propensi a pensare in due dimensioni.


Pensando alla cartapesta tipicamente la mente va alle maschere artistiche: guardate quanto pathos e quanta stasi – quanta attesa di una trasformazione! - suggerisce la vista di questa (maschera “Larva”, di cartapesta e stoffe – anno 2013), dell’artista Ersilia Leonini di Firenze.
In realtà, sono sostanzialmente infinite le possibilità di utilizzo per questo materiale artificiale: può essere modellata come l’argilla, ma non necessita di cottura. Può essere stesa a formare un pavimento poi impermeabilizzato o può essere usata per costruire un tetto. Versatile, economica, incredibilmente facile da dipingere e da trattare, può essere carteggiata una volta asciutta e poi rifinita veramente a piacere.
E questo ci suggerisce l’ultimo spunto di riflessione per questo capitolo: decisamente non è il materiale che determina se l’opera è d’arte oppure no. Tuttavia, a me Piero Manzoni non piace.

Alcune considerazioni sul disegno tecnico ed artistico

Prenderò spunto da una definizione di “disegno” e di “disegno tecnico” che ci offre l’Università degli Studi di Perugia, nelle sue dispense a cura del prof. Francesco Bianconi, giusto per capire di che cosa stiamo parlando. Ci sono comunque migliaia di definizioni, tutte parimenti valide.
Il disegno è una rappresentazione bidimensionale, per mezzo di linee e segni, di un oggetto reale o immaginario.
Il disegno tecnico invece è uno strumento che permette, attraverso un insieme convenzionale di linee, simboli ed altre indicazioni, di fornire delle informazioni sulla funzione, sulla forma, sulle dimensioni, sulla lavorazione e sul materiale relativi ad un determinato oggetto.
La differenza principale tra disegno artistico e disegno tecnico è che il primo è una forma di comunicazione, il secondo uno strumento per la trasmissione oggettiva di informazioni.


Questo tipo di schematizzazioni è utile al fine di generare delle categorie che effettivamente sussistono o per lo meno possono sussistere. Siamo circondati da disegni tecnici senza neanche accorgercene. Basta che andiamo ad Ikea per comprare un mobile ed avremo un libretto di montaggio, seriale, arido, che con segni grafici poco fraintendibili ci guida passo passo nella costruzione della nostra scaffalatura. Certo, guardando queste immagini, non ci verrebbe mai in mente di metterle in cornice e regalarle al nostro amato. Nessuno di noi, tuttavia, dovrebbe mostrare particolari dubbi nel seguire le procedure di montaggio. In linea di principio, quindi, possiamo dire che ci aspettiamo da un disegno tecnico che sia asciutto, privo di colore, con una quantità di informazioni scritte minima ma mai completamente assente (perché integrano le informazioni puramente grafiche) e soprattutto tendenzialmente indecifrabile. Già. Tecnico. Quindi per tecnici. Nell’affascinante distinguo in cui riduciamo tutto nella nostra vita, o facciamo parte di una qualche categoria di tecnici, o quel disegno non è per noi. Infatti, su Facebook o in generale sui social network è consueto trovare la frustrazione di persone che non sono riuscite a montare la loro scaffalatura.

Guardiamo ad un altro disegno tecnico e vediamo se effettivamente è così neutro dal punto di vista delle emozioni che trasmette.
Leonardo da Vinci secondo me non voleva essere ricordato come quello che ha dipinto il cenacolo o la Gioconda: lui era un ingegnere cresciuto in bottega, uomo – come si diceva tempo fa – di pratica e di grammatica.
Non è dunque necessario scomodare il suo uomo rinascimentale, presente come stampa in tanti studi ed in tante case qua e là nel mondo, per capire come un modello, una rappresentazione tecnica possa essere ricca di fascino, d’ingegno e di bellezza. Tutt’altro che arida, insomma.

Se saltiamo in un altro campo, la moda, è assolutamente interessantissimo guardare come l’intuizione del grande stilista (che per lo più è un grande artista) si trasformi pazientemente attraverso successivi passaggi fino al cartamodello dell’abito.

Osserviamo questa incredibile donna di Chino Bert. 

L’eleganza regale che esprime e la chiarezza del disegno permettono contemporaneamente di considerarlo come un’opera d’arte ed una efficace indicazione di natura sartoriale sulle stoffe, sulle passamanerie e sui corredi che fanno di una mise, appunto, un’opera d’arte.

Attraverso la sua intuizione artistica ed i suoi canoni di bellezza, tuttavia, con i suoi figurini l’artista può ovviamente rappresentare anche realizzazioni prêt-à-porter: abiti, tailleur, cappotti o mantelle pronti effettivamente a tradursi poi in cartamodelli, per i quali basta cercare da un giornalaio un po’ fornito una rivista di moda, dove vengono riprodotti abiti “tipo” qualcuno o “tipo” qualcosa.


Ad esempio, vediamo la differenza tra un modello Chanel realizzato ed il suo cartamodello.


Lo avreste riconosciuto guardando solo il disegno “tecnico”? Forse, effettivamente, no. Perché il disegno tecnico è un’astrazione, un modello o secondo Claude Raffestin, “un sistema coerente di dimenticanze” che necessariamente enfatizza alcuni aspetti per trascurarne completamente altri.

Allora questo ci porta a fare alcune considerazioni che prima di riguardare la distinzione tra disegno artistico e disegno tecnico si concentrano a monte, nella differenziazione tra arti pure ed arti applicate, che solo dopo si traduce in una diversificazione tra tipologie di rappresentazione (e non solo necessariamente grafica).

Ad ogni modo, ciò che è giusto tenere in considerazione è che nell’uno e nell’altro caso non si può cedere all’”improvvisazione ignorante”: è in grado di improvvisare l’artista che alle spalle ha tendenzialmente una conoscenza delle tecniche che non lascia spazio al vuoto. Esistono certo delle eccezioni a questa regola, ma in quanto eccezioni sono poche persone a rappresentarle e statisticamente è bassa la probabilità che siamo proprio noi. Almeno questo per certo riguarda me. La curiosità ha sostituito il talento naturale e leggere e studiare, guardare filmati, intervistare tecnici ed artisti mi ha permesso lungo l’arco di una vita intera di accumulare un bagaglio di conoscenze senza a volte neanche rendermene conto.

La distinzione tra arte pura ed arte applicata tendenzialmente sta nell’intenzione insita nella rappresentazione. Perché stiamo facendo questo disegno? Chi lo deve usare? Come? Quanti pezzi voglio produrre? In quale contesto dovrà stare? Paradossalmente, ma neanche troppo, la costruzione di un’opera d’arte non appartenente alla sfera bidimensionale della rappresentazione grafica passa sovente quasi necessariamente attraverso una rappresentazione grafica di tipo tecnico. L’opera d’arte è la cupola del Bernini di Firenze, di Brunelleschi a Roma. Eppure hanno sudato questi architetti a tradurre su carta le loro idee – talvolta incredibilmente innovative – per portare le maestranze ad eseguire ciò che loro avevano in mente.
Diciamo dunque che in generale, chi vuole vivere una vita artistica nel campo delle arti visive dovrà – secondo me – conoscere le regole sia della composizione sia del disegno tecnico e soprattutto dovrà conoscere almeno l’esistenza delle diverse tecniche, a partire dalla matita, attraverso tutte quelle tradizionali per finire con quelle più innovative e con gli strumenti soliti o più tecnologici, come i programmi CAD o di fotoritocco. Non devi necessariamente avere un computer o una tavoletta grafica per essere un buon acquarellista, ma il mio consiglio oggi è che prescindere dalla tecnologia ti taglia fuori dal mondo né più né meno che prescindere dalla conoscenza di tecniche e strumenti che da sempre accompagnano l’uomo, a partire dalle pitture rupestri.

D’altro canto, la fretta è cattiva consigliera e fino a che non siamo morti siamo liberi (o dovremmo esserlo) di continuare a curiosare nel mondo, sperimentando noi stessi e l’ambiente che ci circonda, naturale, antropizzato o virtuale che sia.