lunedì 14 novembre 2016

Accadde a Gela - Io speriamo che me la cavo

Pietro ha iniziato a frequentare la scuola nel 2011. In preparazione del grande passo ne abbiamo fatte di ogni, compreso di girare e guardare compulsivamente tutte le primarie della provincia, per poi scegliere una scuola privata.
Sì, perché – purtroppo - le scuole private hanno la possibilità di seguire maggiormente le esigenze delle famiglie, per una questione di un pizzico più di autonomia decisionale e per un minor legame alla parte malata dell’impiego pubblico.
Intendiamoci: né le scuole private sono la panacea dei mali dell’istruzione, né gli insegnanti pubblici sono tutti brutti e cattivi. Quando però hai una priorità che, nella scala dei valori, supera di diversi ordini di grandezza tutte le altre, devi essere cinico e guardare là dove hai maggiori probabilità che le tue esigenze ricevano una risposta.
Le nostre esigenze, all’epoca, erano che l’insegnante di sostegno di Pietro fosse ancora una volta indicata da noi; che Pietro vivesse all’interno di una comunità solidale dove non potesse incontrare il bullismo, di cui lui potenzialmente è una vittima predeterminata; che l’ambiente nel quale andava a insediarsi fosse, limitatamente alle caratteristiche sociali, il più protetto possibile. Questo era l’identikit della scuola più idonea ad accogliere Pietro.
È ovvio: stiamo sempre parlando di spendere dei soldi per cose che dovrebbero essere garantite di diritto ai bambini ed alle famiglie. Ma quando sei da solo ad affrontare un tema e sai che non puoi contare se non su te stesso e su un manipolo di eroi, devi scendere a patti col diavolo. Niente di male. Questa volta, è la vita, bellezza, e tu non puoi farci niente, niente.
Certo, arrivare all’ultimo anno di elementari che tuo figlio nel suo primo giorno di scuola ripete con te il suo nuovo mantra: “L’autismo è la mia forza ed io sono uno Jedi: non cederò al suo lato oscuro!” è un risultato che le menti più aperte e curiose non avrebbero potuto immaginare all’inizio di questo cammino, sette anni fa. O sentirlo invece tornare a casa e dirti “Mamma, oggi ho ceduto al lato oscuro”, perché non è riuscito a prestare attenzione durante la lezione di matematica.
Ma la fucilata nel cuore, quella che non ti aspetti, è quando lui una sera a cena, nel silenzio della tavola, senza guardarti negli occhi ti chiede: “Ma tu Mamma avresti preferito un figlio normale? Sì, insomma, un figlio NON-AUTISTICO?”. E lì non sai, veramente non lo sai, se hai fatto bene o dannatamente male a raccontargli tutto, proprio adesso, proprio così. E lo vorresti abbracciare e no, dirgli che non hai mai voluto niente di diverso e sai che anche se non è vero, perché ci sono stati momenti in cui l’avresti voluto, oggi non lo vuoi più e poi quelle volte là erano solo debolezza, un momento di cedimento. E, mentre tuo marito ti fulmina e ti vorrebbe uccidere, tu sorridi, fingi di nulla e gli dici “Io e Papà volevamo esattamente te”. E adesso sai che è vero. E il diaframma, piano, torna a muoversi.

martedì 8 novembre 2016

Pensierino della Benny - Angeli e Dèmoni

Quando ho schizzato questo disegno, ero in un momento di forte trasformazione. Mi accompagnavano ovunque il fantasma della mia ultima sigaretta e il mio angelo custode.
Finché un giorno accadde, come tutti gli altri giorni, che stavo tornando da Milano. Veramente era una sera. Costeggiavo a piedi il giardino Merluzzo ("Maledetto Giardino Merluzzo!!!", come da titolo di un contest di prosa dal sapore tutto locale) e dal bar di fronte mi raggiungeva un vociare tipico della primavera che avanza.
Guardavo per terra, camminando, finché ad un certo punto non mi accorsi che la ringhiera alla mia sinistra scorreva verso di me molto più lentamente di quanto non facessero le ruote del Fiorino bianco alla mia destra poco più avanti.
Fu un lampo. Un istante. Un momento soltanto che mi permise di sentire la spinta che Sorella Morte mi dava, per togliermi dalla traiettoria di quel furgone parcheggiato senza freno a mano. L'ho guardato attonita schiantarsi contro il ferro battuto.
Sono tornata a casa fischiettando "Samarcanda", di nuovo con un senso di protezione super-umano, con la percezione profonda che il mio angelo custode mi aveva salvato la vita ancora una volta, in attesa che fosse il momento giusto per incontrarci.

lunedì 7 novembre 2016

Accadde a Gela - Nella tana dei leoni

A febbraio 2012 mi sono posta il problema di come far affrontare a Pietro uno sport di gruppo, di squadra. Uno sport che avesse regole sufficientemente semplici da poter essere comprese immediatamente; uno sport dove se partiva qualche botta non era la fine del mondo; uno sport dove ci fosse contatto fisico necessariamente, per evitare che Pietro si abituasse a non averne.
Non volevo uno sport nobile: niente tennis, niente golf, niente equitazione (per ora – Pietro era all’epoca terrorizzato dai cavalli) e soprattutto uno sport dove potesse imparare, mio figlio, che nella vita da soli non si va da nessuna parte. Il gioco di squadra è fondamentale.
Il calcio ha regole complesse e un approccio etico per lo più molto lontano dalla mia forma mentale. Il calcio è l’unico sport in Italia dove il campo e gli spalti sono separati da una barriera fisica insormontabile. Prima, l’avevo visto solo nel circo dei leoni. Decisamente, non era lo sport che faceva per il mio bambino: la competizione è troppo serrata, anche tra i genitori. La possibilità di esporlo a frustrazioni forti era troppo alta. Lui deve essere portato ai confini delle proprie possibilità, per superare i suoi limiti, ma sempre con la consapevolezza del rischio che si sta correndo. In più, diciamocelo, Pietro ha il piede fucilato e nessuna predisposizione per il pallone. Il basket anche è piuttosto complesso. Pallanuoto non funziona. Pallavolo è troppo piccolo.
Allora, meglio del circo dei leoni, c’era la tana. Sì, i Lyons avrebbero avuto mio figlio. Così avevo deciso.
Il rugby ha un codice di comportamento, che è declinato se sei un giocatore, un genitore, un allenatore o un dirigente. Comunque sia e chiunque tu sia, il rugby ha qualcosa da darti. 
Io credo che sia necessario che i nostri bambini abbiano la possibilità di vivere senza giacere costantemente sotto la nostra ala protettiva. Quando la neuropsichiatra prese in carico Pietro, mi domandò cosa mi aspettassi dal futuro io per lui. Semplicemente, risposi: “Desidero che a diciotto anni possa uscire il venerdì sera a mangiare la pizza coi suoi amici e fare l’amore con la sua ragazza. Il resto non importa”. Lo penso ancora. Spero per lui una vita normale, serena e tranquilla. Spero più che altro per lui la SUA vita.
Desidero quindi un percorso in cui lui possa imparare la sua autosufficienza rispettando se stesso e gli altri e pretendendo lo stesso per sé. Io devo preparare questo bambino ad essere forte se sarà preso in giro e devo insegnargli (e metterlo nelle condizioni di imparare) che mai ugualmente dovrà approfittare di una sua condizione di vantaggio.
Quando parlo con Pietro gli spiego cos’è l’autismo, cosa significa che lui è autistico. L’ho fatto con i suoi cugini, gli zii, gli amici… un po’ con tutti. Lui deve essere pronto a sapere che ci sarà chi cercherà di ferirlo; deve conoscere i suoi punti deboli ed i suoi punti forti, perché possa con serenità affrontare le difficoltà che la vita ha senza dubbio riservato anche per lui. E spero che le affronti conoscendo bene questi semplici consigli che si trovano nel famoso codice etico.
Queste sono le regole che spingo anche ora mio figlio ad imparare, oggi da giocatore, domani da genitore, allenatore o semplicemente da uomo. Queste sono, credo, le regole fondamentali della vita.
Pietro non gioca più a rugby. Prima che se ne andasse, Achille – con un vero gesto d’amore - gli ha regalato come porta fortuna un portachiavi che è un mini pallone scaccia-pensieri. Achille non so chi sia. È un omone che ho conosciuto una sera ad una cena del rugby e gli ho raccontato un po’ della nostra storia. Achille è un rugbyista. Onore ai rugbyisti come Achille.
Pietro l’anno successivo ha esercitato il suo diritto di scelta ed ogni anno nuovamente: a lui piace ballare, in fondo, e forse un po’ nuotare. Non è sportivo, preferisce il teatro ed il cinema. Non importa. A me lui va bene così. Anzi, io ho vinto il mio terno al lotto. Non cambierei il mio passato nemmeno se potessi.

venerdì 4 novembre 2016

Storia di un bambino che non voleva traslocare

La nostra è una famiglia di profughi. Noi spostiamo mobili e persone con cadenza massimo trimestrale più o meno da quando ho 8 anni.

Originariamente, questi traslochi erano voluti da mia madre. Noi li chiamavamo, ad ogni giro di giostra, i suoi "piani trimestrali", appunto, in chiara contrapposizione a quelli quinquennali.
Ma il nostro è un fatto di sangue (nel senso di DNA, non violento).
Erano partiti dalla Svizzera i miei avi e prima ancora dall'Austria. Si erano mischiati sangui ungheresi, italiani, teutonici, dell'estremo sud, dell'estremo nord.
Anche all'interno dell'Italia non siamo mai stati troppo fermi. Ed insieme a noi, ha sempre traslocato un bagaglio di tradizioni che si consolidava e che si ampliava, si ricercava, si confermava e si radicava - se necessario - ancora un po'. Punkelchen, ad esempio. Punkelchen è un folletto dei boschi; si è trasferito dalla profonda Svizzera nei boschi di Guadernago, nel comune di Agazzano, per seguire Gabriella, mia nonna, e crescere adeguatamente Berti, mio padre.
Ma partire - si sa - è un po' morire e per chi non ama la ricerca dell'instabilità muoversi e spostarsi può costituire un serio trauma. Così Punkelchen ha scritto una lettera a Giorgio, mio nipote (che si chiama proprio come il fratello di mia nonna) quando lui non voleva saperne di fare il suo sesto trasloco in 7 anni di vita.


Caro Giorgio,
scusa se scrivo un po' male, ma sai, io sono vecchietto, non ci vedo tanto bene e poi, qui nel bosco, si scrive poco, si parla così così e per lo più si fanno dei versi, per ingannare gli adulti ed in particolare i cacciatori.
Questa notte, mentre cercavo un po' di ghiande per Jurgen lo scoiattolo (a proposito: grazie per le pesche che mi hai lasciato ai confini del bosco, erano davvero deliziose!) ti ho sentito piangere veramente sconsolato, per via del fatto che da Sessa la tua famiglia si trasferirà a Bellinzona.
Ti giuro: quando ho sentito il nome della mia città natale mi è saltato il cuore in gola ed ho pensato di scriverti per raccontarti il perché.
Come sai, recentemente (proprio 2 o 3 giorni fa) ho finito anche io il trasloco della mia casa e sono venuto a vivere al Bosco della Fonte, dopo che degli adulti sporchi e rumorosi hanno rotto la nostra quiete costruendo una cosa orribile che loro chiamano casa al Poggio Zucchino Vecchio, dove io ho vissuto per oltre 60 anni.
Non contenti dello schifo che stavano facendo, mi facevano anche pipì e popò in giardino! Ho provato molto dolore mentre preparavo scatoloni e valige ed ho pianto tanto, perché lì erano tanti ricordi e tanti amici, che alcuni son restati (tipo i Topi ed i Ricci per esempio) ed altri sono andati da altre parti (i Daini ed i Cinghiali). Avevo paura di non rivederli più.
Gli uccellini mi consolavano (ma si sa, loro sono abituati ai traslochi), ma io non gli credevo.
Appena arrivato nella mia nuova casa, che ho sistemato con tutte le cose che mi sono più care, ho pensato: "Non troverò mai più nuovi amici!", ma, mentre stavo coi lacrimoni già pronti a cadere, sento bussare alla porta. "Chi - sniff sniff - chi è?" domando io. "Sono Jurgen" squittisce una vocina fuori "Jurgen lo scoiattolo! Ed abito pochi alberi più in là, vedi?" mi dice quando mi affaccio alla porta e mi indica con la zampa un pino alto alto vicino ad un sambuco. "E tu devi essere il mio nuovo vicino di casa" aggiunge, mentre con l'altra zampa mi porge una ghianda in dono.
"Me l'avevano detto i fagiani che stavi arrivando" e, scansandomi con leggerezza, entra in casa in attesa di un Tea. Ecco, i nuovi amici arrivano così: inaspettati, come un temporale estivo.
Ora però, caro amico mio, veniamo al motivo per cui ti scrivo; che è poi quello per cui il mio cuore ha sobbalzato.
Agli inizi del secolo scorso, la mia mamma ed il mio papà, per dare un futuro migliore ai miei fratellini, decisero (proprio loro, che avevano sempre vissuto in montagna) di trasferirsi in città, dove avrebbero cercato una famiglia di umani per bene, per andare a vivere nel loro giardino ed avere più cibo e meno freddo; certo mai avrebbero immaginato che la loro vita sarebbe cambiata così!
Traslocarono dunque e poco a poco conobbero i bambini che abitavano lì (lo sai vero che noi facciamo amicizia più facilmente con i bambini?) e poi anche con i loro genitori, mentre ai loro amichetti facevano credere di essere solo balocchi o nani da giardino (per sicurezza, sai?). Io sono nato lì, in un posto stupendo che si chiama "Il Dragonato". Celestino (Celo) era un gran disegnatore ed era proprio uno Stoffel purosangue. Ho lasciato Bellinzona per seguirlo a Zurigo, ad Arco (che bello!) e poi mi sono preso cura di sua figlia Gabriella e dei suoi fratelli Giovanna e Giorgio (proprio come te).
Sono andato con loro a Torino e poi, quando Gabriella si è sposata, con lei mi sono trasferito qui, a Guadernago, dove con suo figlio Berti ho costruito la casa in cui ho vissuto fino a pochi giorni fa.
Questa è la storia che ti volevo raccontare, che comincia proprio da lì, da Bellinzona, dove tu stai per andare a vivere e dove in verità ci son nato io.
La tua mamma la conosce bene questa storia, perché è la storia della sua famiglia: fattela raccontare!
Ora, caro Giorgio, sono troppo stanco per disegnare tutto quello che avrei voluto, e nei modi sublimi che il tuo trisnonno Celestino mi ha insegnato, per cui voglio pregati di alcune cose:
1) Disegna tu, per me, nei rettangoli che ti ho lasciato bianchi;
2) Porta i miei saluti a (e mandami una carolina da) Bellinzona, 
MA SOPRATTUTTO
3) Amala come l'ho amata io, perché è la tua città, Giorgio, e lì ti troverai bene e crescerai felice.
Con affetto, tuo
Punkelchen



giovedì 3 novembre 2016

Accadde a Gela - E' l'Italia, bellezza, e tu non puoi farci niente

Le cooperative sociali in Italia vivono con i finanziamenti pubblici perché sono quella mano santa che alla pubblica amministrazione permette di dare sottocosto i servizi che vuole erogare senza doversi porre scrupoli morali o sindacali. L’Italia è anche questa cosa qua. Ricordiamocelo, perché questo è uno degli aspetti che alimenta certe iniquità tipiche dei rapporti di lavoro della cooperazione sociale (rispetto, ad esempio, agli omologhi colleghi dipendenti pubblici) o certe facilitazioni che opportunamente utilizzate trasformano la fiscalità di una cooperativa sociale in uno strumento di concorrenza sleale verso il mercato normale.
Ma l’Italia è anche quel Paese dove per lo più la norma del legislatore insegue la realtà già consolidata, come avvenne ad esempio venti anni fa con l’istituzione proprio delle cooperative sociali. Ed è quindi quel Paese in cui se vuoi che una cosa divenga un diritto riconosciuto per legge, devi prima realizzarla con l’impegno costante di convincere che non stai operando contro la legge né contro la morale.
Ma realizzare un progetto in Italia è impresa ardua ben al di là delle difficoltà burocratiche che si possono incontrare: i particolarismi, gli egoismi, gli assetti un po’ mafiosi in cui si consolidano le relazioni umane all’interno degli enti pubblici, le modalità in cui quelli privati cercano di accreditarsi a discapito degli altri.
Piccoli Don Rodrigo, piccoli Don Abbondio, pochi Innominati, nessuna conversione.
I soldi, ovvio, sono un problema: Adventura onlus è stata in attesa per un anno di una risposta dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano, per poter realizzare un ambulatorio per il trattamento dei DGS e dei DSA. Soldi che ci erano già stati assegnati e che noi abbiamo semplicemente richiesto di spostare su un altro capitolo. Dopo tanta attesa, è finalmente arrivata la risposta che ce li nega.
Ma l’impossibilità di avviare un progetto in Italia è anche radicata nella ricerca e nell’università, perché chi genera la teoria spesso non genera la pratica, mentre si impegna a difendere la propria scuola di pensiero per costruire una rete ed una lobby sugli obiettivi validi per la collettività.
Ma l’Italia è infine un paese d’arsenico e vecchi merletti, dei caffè di Sindona, degli immobilismi che questa crisi certo non aiuta a rimuovere.
Attraverso questi anni di tentativi, lo spaccato sociale e culturale del nostro Paese si è disegnato sempre più precisamente, fino a togliermi – vi confesso – la volontà di procedere.
Pietro fu diagnosticato, a memoria mia, in quattro sessioni. Era sempre presente a queste una neuropsichiatra, dalla quale mi mandò la mia psicologa. Questa neuropsichiatra è in pensione, ma ha lavorato all’AUSL come responsabile per la neuropsichiatria infantile e, una volta chiusa la parentesi pubblica, riviste le proprie posizioni sul comportamentismo, ha aperto, con alcune psicologhe, un centro riabilitativo che si chiama Kairòs ed opera a Piacenza secondo il metodo ABA. Il centro fa riferimento direttamente allo Iescum (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano). 
Dopo un po’ di tempo, un annetto abbondante direi, soprii, per puro caso, che nel centro i bambini (tra cui mio figlio) erano assicurati per le sole responsabilità civili (tipo: gli cade addosso uno scaffale all’interno del centro stesso), ma non per i danni eventualmente provocati dagli operatori o, più probabilmente, dagli altri bambini. Consideriamo che i bambini che soffrono di DGS, sovente, hanno atteggiamenti aggressivi diretti verso se stessi e verso il prossimo.
Cercarono di spiegarmi che questo era per non gravare eccessivamente sui costi orari delle terapie, probabilmente dando per scontato che io non sapessi quanto costa assicurare un bambino. Invece lo sapevo, perché lavoravo in una cooperativa sociale, e per questo a maggior ragione mi sentivo presa in giro.
Naturalmente, questo minò seriamente il rapporto con Kairòs e cambiò una serie di assetti relazionali dai quali discese una buona parte dello stop locale al progetto.
Ad esempio, il direttore della neuropsichiatria di Piacenza si rifiutò per anni di incontrarmi, mentre manteneva relazioni costanti con la neuropsichiatra del centro, che aveva avuto come collaboratrice all’epoca in cui lei serviva il pubblico. Ho dovuto richiedere l’intervento delle più profonde mani nella gestione dell’AUSL per riuscire ad incontrarlo e ricordo ancora oggi la telefonata che ne ricevetti come feedback trasversale (non mi disse tizio ha detto che tu, caio ha detto che voi, perché non si sa mai se e chi ha eventualmente detto cosa) da colui che in prima persona si era adoperato per facilitarmi il nutrito incontro; mi chiese così, senza tanti giri di parole: “ma è vero che hai offerto delle "cose" per lavorare di più?”. Per fortuna avevo un tale numero di testimoni a quell’incontro (perché ho capito il mondo come va e non mi fido più di nessuno) che suggerii al mio facilitatore di dissuadere i suoi referenti interni dal procedere su questo genere di argomenti, o sarebbero velocemente stati querelati.
Questo è un fatto interessante, così tipicamente autoctono, perché “la calunnia è un venticello”… Serve bene l’episodio per comprendere quali sono in Italia le modalità con cui opera il potere di Don Rodrigo, quando non basta il primo stadio della strategia di neutralizzazione del nemico.
Ma non fu solo l’AUSL a lottare per il suo predominio nel campo. Ogni professore universitario che abbiamo incontrato era molto molto più interessato a sponsorizzare se stesso che a far parte di una rete di intelligenze al servizio di un obiettivo più alto: insomma, ciascuno vuole il suo mausoleo. Sono pochi disposti a cooperare veramente, come avrebbe dovuto essere nel comitato scientifico che intendevamo costituire: tanti progetti, ciascuno assegnato ad un primus inter pares, cosa che li avrebbe costretti a confrontarsi con le altre eminenti professionalità, oscurando la propria luce personale.

martedì 1 novembre 2016

Accadde a Gela - La legge morale dentro di me

“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra - risponde Marco - ma dalla linea dell'arco che esse formano. Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa. Polo risponde: Senza pietre non c'è arco.”
Italo Calvino (Le città invisibili)


I bisogni da cui nasceva il progetto disegnano un mosaico di obiettivi generali e specifici. Questi, come le pietre di Marco Polo, solo “legati” insieme possono svelare l’obiettivo più profondo e reale: costruire un nuovo modello di società e ad attuarlo attraverso la trasformazione del modello del welfare, nel sistema dell’educazione e dello sviluppo dell’individuo, in un rapporto dialettico con ciò che è altro da lui e permeabile alle differenze.

Volevamo mettere a frutto ed a disposizione la nostra esperienza e riuscire a coniugare gli aspetti valoriali dell’interesse sociale e quelli economici delle strategie d’impresa. Senza questo, è impossibile riuscire a costruire l’arco e, quindi, il ponte.
È, la nostra, un'idea che individuava un mercato sostanzialmente nuovo, per alcuni versi, e - laddove non è nuovo il mercato - nuovo è il modo di intrepretarlo, intercettando non una domanda, ma un insieme di domande cui è possibile fornire un insieme di risposte che possono e devono essere date in maniera integrata, attraverso un approccio che rispetti le regole che fanno di una buona idea un'idea di business: efficacia, efficienza ed economicità.
Per riuscire a farlo, lo sforzo inizialmente più oneroso è stato quello di cercare di comprendere e poi di dimostrare che il mercato disegnato è “vero”: con uno sforzo di semplificazione, riteniamo che un mercato vero abbia un modo per certo di essere aggredito con soluzioni di business. Se non ce l'ha, non è un mercato. Neanche nel mondo del welfare.
Abbiamo disegnato i contorni di un progetto che non è un’utopia e non definisce una piaga, ma individua risposte per un insieme di problemi, con rischi e opportunità. L'educazione, la formazione, la disabilità sono temi che possono avere risposte differenti, più o meno efficaci, più o meno efficienti, più o meno economicamente sostenibili. Il nostro obiettivo, quindi, è stato quello di delineare quelle che secondo il nostro piano sono le risposte più funzionali.
Un problema necessita di risposte principali e di risposte "accessorie”. Abbiamo intuito che esiste una serie di problemi diretti: la scuola, l'assenza di un insieme di modelli educativi di riferimento, la necessità di declinarli lungo le specificità degli individui formati o da formare, il bisogno di creare delle professionalità che intercettano in maniera olistica i bisogni e li affrontano in un quadro unico di riferimento, senza banalizzare il processo di crescita. Professionalità disposte ad investire su se stesse, per una formazione permanente che le tenga costantemente aggiornate.
Condividere un sistema valoriale, in questo caso come - pensiamo - in via generale, significa quindi trovare delle soluzioni vincenti per gli imprenditori e vincenti per i portatori di interesse, che sono quanto mai articolati sia complessivamente e sia per ogni filone che compone il progetto.
Condividiamo un codice di comportamento etico basato sul principio che lo sviluppo del welfare (ed in particolare dei servizi socioeducativi all’infanzia che vogliamo realizzare) debba trarre vantaggio da scelte politiche ed imprenditoriali di lungo termine che comportano il rispetto del contesto sociale ed ambientale: lo sviluppo che vogliamo è fondato sul criterio della sostenibilità, cioè deve essere sostenibile nel lungo periodo, economicamente conveniente ed eticamente e socialmente equo verso l’individuo e la comunità.
Crediamo che sia possibile costruire una società multiculturale, che si fonda sul confronto tra le differenze perché le conosce e non ne ha paura, perché le interpreta come una ricchezza. Crediamo in una società più equa, che nella parità di diritti e nella parità di doveri vive ed interpreta l’individuo come elemento fondante e dove l’individuo si sente elemento fondante, conoscendone e riconoscendone conosce le regole e le rispetta. Crediamo in un welfare sinonimo di crescita culturale e di benessere per tutti, che risponda ai bisogni reali, con un approccio strategico che esalti e faccia risaltare il ruolo e le responsabilità di tutti i portatori d’interesse, senza sovrapposizioni, integrando tutte le risposte esistenti attraverso un coordinamento delle forze in campo, riconoscendo il valore della ricerca e della formazione; un welfare attuato con un approccio tattico che lo renda economicamente sostenibile. Perseguiamo la realizzazione di un mercato del lavoro che abbia rispetto dei professionisti che vi operano, che ne riconosce la professionalità ed il valore del lavoro, anche in termini di inquadramento contrattuale, retribuzione, aggiornamento professionale e formazione. Infine, crediamo in un sistema economico collaborativo, dove gli attori riconoscono il valore reciproco, costruendo un sistema di cooperazione che esalti le peculiarità di ciascun erogatore, nel rispetto di principi di qualità condivisi e sottoscritti e di un modello di erogazione che accompagna gli individui nei vari aspetti che caratterizzano i bisogni, senza standardizzazioni “al ribasso” dei servizi con un meccanismo di contenimento dei costi derivante dalla condivisione di strutture e risorse.
Queste sono le cose in cui ancora oggi, seppur faticosamente, crediamo.
Condividere un sistema valoriale, tuttavia, non è sufficiente per garantire la sostenibilità – anche economica – di un progetto che ambisce a realizzare un processo di trasformazione culturale e sociale. Bisogna individuare un’architettura industriale che riesca a interpretare ed a rispondere in maniera efficace alle diverse necessità degli attori del mercato di riferimento. Ma questo è un argomento da piano industriale, che in questo luogo non trova sede.
Serve però infine – e questo è un problema sociale e nuovamente politico – restituire all’approccio lobbystico nel nostro Paese il suo originario significato anglosassone: un gruppo d'interesse che agisce in modo da influenzare le decisioni dei legislatori, gli atti del governo e degli enti di controllo chiedendo rappresentanza legittima delle proprie istanze. D’altro canto “deputato” significa proprio “scelto per un compito da espletare da solo o con altri secondo un preciso mandato”, ovvero “rappresentante”.
Sarebbe invece auspicabile che la parola lobby perdesse quel retrogusto di “mafioso”, affinché l’andare a parlare con un parlamentare, un presidente di regione, un assessore o un sindaco o semplicemente un dipendente pubblico non ti faccia più sentire la necessità di penetrare la cricca degli amichetti. Sarebbe bello se al sistema fosse restituita una verginità che non corrisponde, semplicemente, alla ricostruzione dell’imene.