giovedì 15 dicembre 2016

Come fanno i bambini.

Se si fa un giro su questo sito, si trovano in tedesco ed in inglese le storie che compongono l'intero libro dello Struwwelpeter, quello di cui vi parlavo in questo post qui.

In questi ultimi giorni mi si è fatta insistente in testa l'idea che per ravvivare il mio tedesco e le tante parole che ho scordato, dovrei ricominciare a studiarlo come i bambini, che infatti non studiano: ascoltano, associano, memorizzano, generalizzano.

Ma per fare come i bambini, che cosa potrebbe essere più carino che rifarsi alle fiabe? Già... Mi sarebbe piaciuto tanto riportare e tradurre delle filastrocche, ma è difficile, impossibile riportare le rime! Col tedesco poi, che ha parole più lunghe di supercalifragilistichespiralidoso, che - contrariamente a supercalifragilistichespiralidoso - HANNO UN SENSO COMPIUTO!

Prendiamo l'italiano: in italiano la parola più lunga del nostro vocabolario (termini scientifici esclusi) è precipitevolissimevolmente, che vuol dire "con fretta eccessiva".

In tedesco, già solo "fare una passeggiata" un bambino non lo può dire così facilmente: perché la passeggiata è Spaziergang, che coniuga due significati, oltre che un'infinita serie di consonanti a caso, cioè l'andare (gehen) ed il camminare (spazieren) e per essere sicuri che non si pensi che si esce a far la spesa li dice tutti e due tutti insieme indissolubilmente

Nel 2013, in un gesto che credo rappresenti l'unico barlume di umanità uscito da un governo regionale teutonico, fu abrogata una legge che abolì conseguentemente l'allora paola più lunga in tedesco: la "Rindfleischetikettierungsuberwachungsaufgabenubertragungsgesetz", 63 lettere che significano: "Legge per il trasferimento di compiti di vigilanza nell'etichettatura delle carni bovine". Serve altro? 

Preciso, il tedesco non lascia nulla all'immaginazione. Ma questa è un'opportunità da non trascurare. Intanto, con un vocabolario non troppo denso, conoscendo la matematica dei fattoriali, lo si estende a dismisura attraverso combinazioni casuali di parole. Poi, noi in fondo siamo qui per giocare; quindi così sia: giochiamo.





Prendiamo ad esempio la filastrocca tedesca più famosa al mondo:

Eins, zwei, Polizei,
drei, vier, Offizier,
fünf, sechs, alte Hex,
sieben, acht, gute Nacht,
neun, zehn, schlafen gehn!

La traduzione letterale è questa:

Uno, due, polizia,
tre, quattro, ufficiale,
cinque, sei, vecchia strega,
sette, otto, buona notte,
nove, dieci, andare a letto! (letteralmente: andare a dormire).

Fa abbastanza schifo, vero?

Per prima cosa, non rispetta nessuna metrica. Poi non ha rime. E non si sa come fare a fargli prendere un senso, a questa storia.

Proviamo così:

Pussi via la polizia!
Ma non vale! Un ufficiale
Già si lega alla congrega
Che dà botte ininterrotte
da impazzire e da morire.

Qualcosa in stile G8 di Genova, finisce che i bambini mi si politicizzano troppo presto. Fa ancora abbastanza schifo. Riproviamo:

Uno due, stanco il bue
tre e quattro, tira l'aratro
cinque sei, io gli darei
sette otto, un bel biscotto
nove e dieci, fatto con i ceci!

Ecco, già meglio, più fanciullesco, ti racconta uno scorcio bucolico che mi ricorda "Lavandare" di Pascoli:

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un'aratro senza buoi, che pare
dimenticato tra il vapor leggero.

Certo, è senza buoi perché loro, stanchi morti, sono andati a mangiare biscotti di ceci dopo una dura giornata di lavoro. C'è qualcosa di giusto, di equo in questa filastrocca tutta "out of my box".

Però va bene per imparare i numeri, ma non per imparare le parole del testo (polizia - Polizei, ufficiale - Offizier, strega - Hexe, notte - Nacht, andare a letto - schlafen gehen).

Pazienza. Le prime parole comunque le abbiamo messe da parte.

mercoledì 14 dicembre 2016

Lo Struwwelpeter ed altre facezie che spiegano la psicanalisi

Quando ero piccola e sedevo sulle ginocchia di mia nonna tedesca, la Omi, era di solito perché pochi minuti prima lei si era avvicinata alla libreria a muro (quella in legno, a sinistra della portafinestra che dava sul balcone) e da lì aveva estratto amorevolmente un libro di fiabe per bambini. Naturalmente, in tedesco. Preferibilmente, in caratteri gotici.

C'era un'oca, in un libro verde ed uno arancione. C'era Samniklaus, che con gli angioletti preparava i regali per i bambini. C'era Pu der Bär (in inglese Winnie-the-Pooh), che camminava con Ior, Känga, Tigger, Kaninchen e via nel Hundertsechzig-Morgen-Wald (letteralmente il bosco delle 160 mattine, che da noi - e in Inghilterra soprattutto - era meglio noto come il Bosco dei Cento Acri). Oppure... Oppure c'era lo Struwwelpeter.

Ecco, il libro dello Struwwelpeter ancora oggi rappresenta nell'immaginario mio e delle mie sorelle la ragione più profonda del nostro rapporto così intimo con tanti specialisti della psicologia e della psicanalisi. D'altro canto, una veloce carrellata alle immagini sobrie potrebbe rapidamente convincervi che no, non servono altre parole ma solo amore e comprensione (merita menzione il fatto che il sottotitolo del medesimo libro sia "Storie buffe ed illustrazioni divertenti", a riprova che i tedeschi qualche problema serio ce l'hanno rispetto al senso dell'umorismo, dove vincono gli inglesi).

Invece, nell'etterna coazione a ripetere (scritta con due t, come Dante nella Commedia), in questo mio 42esimo genetliaco, ho deciso che è venuto il momento di fare pace (o riaprire il dialogo, almeno) con quella lingua ossuta, buona solo "per dar ordini ai cani" (secondo la definizione di mio padre, in fondo autorevole madrelingua).
Ed in un mondo contemporaneo che alterna, per i bambini, ovatta pastellata e pokemon assassini o spietati videogiochi di guerra che confondono la morte con la finzione, io ho pensato che conviene - sì CONVIENE - riprendere il contatto con quel filo rosso che infondo era truce, ma ci insegnava a non mangiarci le unghie ed a finire la zuppa.

Proprio così: si nasce incendiari e si muore pompieri.

lunedì 14 novembre 2016

Accadde a Gela - Io speriamo che me la cavo

Pietro ha iniziato a frequentare la scuola nel 2011. In preparazione del grande passo ne abbiamo fatte di ogni, compreso di girare e guardare compulsivamente tutte le primarie della provincia, per poi scegliere una scuola privata.
Sì, perché – purtroppo - le scuole private hanno la possibilità di seguire maggiormente le esigenze delle famiglie, per una questione di un pizzico più di autonomia decisionale e per un minor legame alla parte malata dell’impiego pubblico.
Intendiamoci: né le scuole private sono la panacea dei mali dell’istruzione, né gli insegnanti pubblici sono tutti brutti e cattivi. Quando però hai una priorità che, nella scala dei valori, supera di diversi ordini di grandezza tutte le altre, devi essere cinico e guardare là dove hai maggiori probabilità che le tue esigenze ricevano una risposta.
Le nostre esigenze, all’epoca, erano che l’insegnante di sostegno di Pietro fosse ancora una volta indicata da noi; che Pietro vivesse all’interno di una comunità solidale dove non potesse incontrare il bullismo, di cui lui potenzialmente è una vittima predeterminata; che l’ambiente nel quale andava a insediarsi fosse, limitatamente alle caratteristiche sociali, il più protetto possibile. Questo era l’identikit della scuola più idonea ad accogliere Pietro.
È ovvio: stiamo sempre parlando di spendere dei soldi per cose che dovrebbero essere garantite di diritto ai bambini ed alle famiglie. Ma quando sei da solo ad affrontare un tema e sai che non puoi contare se non su te stesso e su un manipolo di eroi, devi scendere a patti col diavolo. Niente di male. Questa volta, è la vita, bellezza, e tu non puoi farci niente, niente.
Certo, arrivare all’ultimo anno di elementari che tuo figlio nel suo primo giorno di scuola ripete con te il suo nuovo mantra: “L’autismo è la mia forza ed io sono uno Jedi: non cederò al suo lato oscuro!” è un risultato che le menti più aperte e curiose non avrebbero potuto immaginare all’inizio di questo cammino, sette anni fa. O sentirlo invece tornare a casa e dirti “Mamma, oggi ho ceduto al lato oscuro”, perché non è riuscito a prestare attenzione durante la lezione di matematica.
Ma la fucilata nel cuore, quella che non ti aspetti, è quando lui una sera a cena, nel silenzio della tavola, senza guardarti negli occhi ti chiede: “Ma tu Mamma avresti preferito un figlio normale? Sì, insomma, un figlio NON-AUTISTICO?”. E lì non sai, veramente non lo sai, se hai fatto bene o dannatamente male a raccontargli tutto, proprio adesso, proprio così. E lo vorresti abbracciare e no, dirgli che non hai mai voluto niente di diverso e sai che anche se non è vero, perché ci sono stati momenti in cui l’avresti voluto, oggi non lo vuoi più e poi quelle volte là erano solo debolezza, un momento di cedimento. E, mentre tuo marito ti fulmina e ti vorrebbe uccidere, tu sorridi, fingi di nulla e gli dici “Io e Papà volevamo esattamente te”. E adesso sai che è vero. E il diaframma, piano, torna a muoversi.

martedì 8 novembre 2016

Pensierino della Benny - Angeli e Dèmoni

Quando ho schizzato questo disegno, ero in un momento di forte trasformazione. Mi accompagnavano ovunque il fantasma della mia ultima sigaretta e il mio angelo custode.
Finché un giorno accadde, come tutti gli altri giorni, che stavo tornando da Milano. Veramente era una sera. Costeggiavo a piedi il giardino Merluzzo ("Maledetto Giardino Merluzzo!!!", come da titolo di un contest di prosa dal sapore tutto locale) e dal bar di fronte mi raggiungeva un vociare tipico della primavera che avanza.
Guardavo per terra, camminando, finché ad un certo punto non mi accorsi che la ringhiera alla mia sinistra scorreva verso di me molto più lentamente di quanto non facessero le ruote del Fiorino bianco alla mia destra poco più avanti.
Fu un lampo. Un istante. Un momento soltanto che mi permise di sentire la spinta che Sorella Morte mi dava, per togliermi dalla traiettoria di quel furgone parcheggiato senza freno a mano. L'ho guardato attonita schiantarsi contro il ferro battuto.
Sono tornata a casa fischiettando "Samarcanda", di nuovo con un senso di protezione super-umano, con la percezione profonda che il mio angelo custode mi aveva salvato la vita ancora una volta, in attesa che fosse il momento giusto per incontrarci.

lunedì 7 novembre 2016

Accadde a Gela - Nella tana dei leoni

A febbraio 2012 mi sono posta il problema di come far affrontare a Pietro uno sport di gruppo, di squadra. Uno sport che avesse regole sufficientemente semplici da poter essere comprese immediatamente; uno sport dove se partiva qualche botta non era la fine del mondo; uno sport dove ci fosse contatto fisico necessariamente, per evitare che Pietro si abituasse a non averne.
Non volevo uno sport nobile: niente tennis, niente golf, niente equitazione (per ora – Pietro era all’epoca terrorizzato dai cavalli) e soprattutto uno sport dove potesse imparare, mio figlio, che nella vita da soli non si va da nessuna parte. Il gioco di squadra è fondamentale.
Il calcio ha regole complesse e un approccio etico per lo più molto lontano dalla mia forma mentale. Il calcio è l’unico sport in Italia dove il campo e gli spalti sono separati da una barriera fisica insormontabile. Prima, l’avevo visto solo nel circo dei leoni. Decisamente, non era lo sport che faceva per il mio bambino: la competizione è troppo serrata, anche tra i genitori. La possibilità di esporlo a frustrazioni forti era troppo alta. Lui deve essere portato ai confini delle proprie possibilità, per superare i suoi limiti, ma sempre con la consapevolezza del rischio che si sta correndo. In più, diciamocelo, Pietro ha il piede fucilato e nessuna predisposizione per il pallone. Il basket anche è piuttosto complesso. Pallanuoto non funziona. Pallavolo è troppo piccolo.
Allora, meglio del circo dei leoni, c’era la tana. Sì, i Lyons avrebbero avuto mio figlio. Così avevo deciso.
Il rugby ha un codice di comportamento, che è declinato se sei un giocatore, un genitore, un allenatore o un dirigente. Comunque sia e chiunque tu sia, il rugby ha qualcosa da darti. 
Io credo che sia necessario che i nostri bambini abbiano la possibilità di vivere senza giacere costantemente sotto la nostra ala protettiva. Quando la neuropsichiatra prese in carico Pietro, mi domandò cosa mi aspettassi dal futuro io per lui. Semplicemente, risposi: “Desidero che a diciotto anni possa uscire il venerdì sera a mangiare la pizza coi suoi amici e fare l’amore con la sua ragazza. Il resto non importa”. Lo penso ancora. Spero per lui una vita normale, serena e tranquilla. Spero più che altro per lui la SUA vita.
Desidero quindi un percorso in cui lui possa imparare la sua autosufficienza rispettando se stesso e gli altri e pretendendo lo stesso per sé. Io devo preparare questo bambino ad essere forte se sarà preso in giro e devo insegnargli (e metterlo nelle condizioni di imparare) che mai ugualmente dovrà approfittare di una sua condizione di vantaggio.
Quando parlo con Pietro gli spiego cos’è l’autismo, cosa significa che lui è autistico. L’ho fatto con i suoi cugini, gli zii, gli amici… un po’ con tutti. Lui deve essere pronto a sapere che ci sarà chi cercherà di ferirlo; deve conoscere i suoi punti deboli ed i suoi punti forti, perché possa con serenità affrontare le difficoltà che la vita ha senza dubbio riservato anche per lui. E spero che le affronti conoscendo bene questi semplici consigli che si trovano nel famoso codice etico.
Queste sono le regole che spingo anche ora mio figlio ad imparare, oggi da giocatore, domani da genitore, allenatore o semplicemente da uomo. Queste sono, credo, le regole fondamentali della vita.
Pietro non gioca più a rugby. Prima che se ne andasse, Achille – con un vero gesto d’amore - gli ha regalato come porta fortuna un portachiavi che è un mini pallone scaccia-pensieri. Achille non so chi sia. È un omone che ho conosciuto una sera ad una cena del rugby e gli ho raccontato un po’ della nostra storia. Achille è un rugbyista. Onore ai rugbyisti come Achille.
Pietro l’anno successivo ha esercitato il suo diritto di scelta ed ogni anno nuovamente: a lui piace ballare, in fondo, e forse un po’ nuotare. Non è sportivo, preferisce il teatro ed il cinema. Non importa. A me lui va bene così. Anzi, io ho vinto il mio terno al lotto. Non cambierei il mio passato nemmeno se potessi.

venerdì 4 novembre 2016

Storia di un bambino che non voleva traslocare

La nostra è una famiglia di profughi. Noi spostiamo mobili e persone con cadenza massimo trimestrale più o meno da quando ho 8 anni.

Originariamente, questi traslochi erano voluti da mia madre. Noi li chiamavamo, ad ogni giro di giostra, i suoi "piani trimestrali", appunto, in chiara contrapposizione a quelli quinquennali.
Ma il nostro è un fatto di sangue (nel senso di DNA, non violento).
Erano partiti dalla Svizzera i miei avi e prima ancora dall'Austria. Si erano mischiati sangui ungheresi, italiani, teutonici, dell'estremo sud, dell'estremo nord.
Anche all'interno dell'Italia non siamo mai stati troppo fermi. Ed insieme a noi, ha sempre traslocato un bagaglio di tradizioni che si consolidava e che si ampliava, si ricercava, si confermava e si radicava - se necessario - ancora un po'. Punkelchen, ad esempio. Punkelchen è un folletto dei boschi; si è trasferito dalla profonda Svizzera nei boschi di Guadernago, nel comune di Agazzano, per seguire Gabriella, mia nonna, e crescere adeguatamente Berti, mio padre.
Ma partire - si sa - è un po' morire e per chi non ama la ricerca dell'instabilità muoversi e spostarsi può costituire un serio trauma. Così Punkelchen ha scritto una lettera a Giorgio, mio nipote (che si chiama proprio come il fratello di mia nonna) quando lui non voleva saperne di fare il suo sesto trasloco in 7 anni di vita.


Caro Giorgio,
scusa se scrivo un po' male, ma sai, io sono vecchietto, non ci vedo tanto bene e poi, qui nel bosco, si scrive poco, si parla così così e per lo più si fanno dei versi, per ingannare gli adulti ed in particolare i cacciatori.
Questa notte, mentre cercavo un po' di ghiande per Jurgen lo scoiattolo (a proposito: grazie per le pesche che mi hai lasciato ai confini del bosco, erano davvero deliziose!) ti ho sentito piangere veramente sconsolato, per via del fatto che da Sessa la tua famiglia si trasferirà a Bellinzona.
Ti giuro: quando ho sentito il nome della mia città natale mi è saltato il cuore in gola ed ho pensato di scriverti per raccontarti il perché.
Come sai, recentemente (proprio 2 o 3 giorni fa) ho finito anche io il trasloco della mia casa e sono venuto a vivere al Bosco della Fonte, dopo che degli adulti sporchi e rumorosi hanno rotto la nostra quiete costruendo una cosa orribile che loro chiamano casa al Poggio Zucchino Vecchio, dove io ho vissuto per oltre 60 anni.
Non contenti dello schifo che stavano facendo, mi facevano anche pipì e popò in giardino! Ho provato molto dolore mentre preparavo scatoloni e valige ed ho pianto tanto, perché lì erano tanti ricordi e tanti amici, che alcuni son restati (tipo i Topi ed i Ricci per esempio) ed altri sono andati da altre parti (i Daini ed i Cinghiali). Avevo paura di non rivederli più.
Gli uccellini mi consolavano (ma si sa, loro sono abituati ai traslochi), ma io non gli credevo.
Appena arrivato nella mia nuova casa, che ho sistemato con tutte le cose che mi sono più care, ho pensato: "Non troverò mai più nuovi amici!", ma, mentre stavo coi lacrimoni già pronti a cadere, sento bussare alla porta. "Chi - sniff sniff - chi è?" domando io. "Sono Jurgen" squittisce una vocina fuori "Jurgen lo scoiattolo! Ed abito pochi alberi più in là, vedi?" mi dice quando mi affaccio alla porta e mi indica con la zampa un pino alto alto vicino ad un sambuco. "E tu devi essere il mio nuovo vicino di casa" aggiunge, mentre con l'altra zampa mi porge una ghianda in dono.
"Me l'avevano detto i fagiani che stavi arrivando" e, scansandomi con leggerezza, entra in casa in attesa di un Tea. Ecco, i nuovi amici arrivano così: inaspettati, come un temporale estivo.
Ora però, caro amico mio, veniamo al motivo per cui ti scrivo; che è poi quello per cui il mio cuore ha sobbalzato.
Agli inizi del secolo scorso, la mia mamma ed il mio papà, per dare un futuro migliore ai miei fratellini, decisero (proprio loro, che avevano sempre vissuto in montagna) di trasferirsi in città, dove avrebbero cercato una famiglia di umani per bene, per andare a vivere nel loro giardino ed avere più cibo e meno freddo; certo mai avrebbero immaginato che la loro vita sarebbe cambiata così!
Traslocarono dunque e poco a poco conobbero i bambini che abitavano lì (lo sai vero che noi facciamo amicizia più facilmente con i bambini?) e poi anche con i loro genitori, mentre ai loro amichetti facevano credere di essere solo balocchi o nani da giardino (per sicurezza, sai?). Io sono nato lì, in un posto stupendo che si chiama "Il Dragonato". Celestino (Celo) era un gran disegnatore ed era proprio uno Stoffel purosangue. Ho lasciato Bellinzona per seguirlo a Zurigo, ad Arco (che bello!) e poi mi sono preso cura di sua figlia Gabriella e dei suoi fratelli Giovanna e Giorgio (proprio come te).
Sono andato con loro a Torino e poi, quando Gabriella si è sposata, con lei mi sono trasferito qui, a Guadernago, dove con suo figlio Berti ho costruito la casa in cui ho vissuto fino a pochi giorni fa.
Questa è la storia che ti volevo raccontare, che comincia proprio da lì, da Bellinzona, dove tu stai per andare a vivere e dove in verità ci son nato io.
La tua mamma la conosce bene questa storia, perché è la storia della sua famiglia: fattela raccontare!
Ora, caro Giorgio, sono troppo stanco per disegnare tutto quello che avrei voluto, e nei modi sublimi che il tuo trisnonno Celestino mi ha insegnato, per cui voglio pregati di alcune cose:
1) Disegna tu, per me, nei rettangoli che ti ho lasciato bianchi;
2) Porta i miei saluti a (e mandami una carolina da) Bellinzona, 
MA SOPRATTUTTO
3) Amala come l'ho amata io, perché è la tua città, Giorgio, e lì ti troverai bene e crescerai felice.
Con affetto, tuo
Punkelchen



giovedì 3 novembre 2016

Accadde a Gela - E' l'Italia, bellezza, e tu non puoi farci niente

Le cooperative sociali in Italia vivono con i finanziamenti pubblici perché sono quella mano santa che alla pubblica amministrazione permette di dare sottocosto i servizi che vuole erogare senza doversi porre scrupoli morali o sindacali. L’Italia è anche questa cosa qua. Ricordiamocelo, perché questo è uno degli aspetti che alimenta certe iniquità tipiche dei rapporti di lavoro della cooperazione sociale (rispetto, ad esempio, agli omologhi colleghi dipendenti pubblici) o certe facilitazioni che opportunamente utilizzate trasformano la fiscalità di una cooperativa sociale in uno strumento di concorrenza sleale verso il mercato normale.
Ma l’Italia è anche quel Paese dove per lo più la norma del legislatore insegue la realtà già consolidata, come avvenne ad esempio venti anni fa con l’istituzione proprio delle cooperative sociali. Ed è quindi quel Paese in cui se vuoi che una cosa divenga un diritto riconosciuto per legge, devi prima realizzarla con l’impegno costante di convincere che non stai operando contro la legge né contro la morale.
Ma realizzare un progetto in Italia è impresa ardua ben al di là delle difficoltà burocratiche che si possono incontrare: i particolarismi, gli egoismi, gli assetti un po’ mafiosi in cui si consolidano le relazioni umane all’interno degli enti pubblici, le modalità in cui quelli privati cercano di accreditarsi a discapito degli altri.
Piccoli Don Rodrigo, piccoli Don Abbondio, pochi Innominati, nessuna conversione.
I soldi, ovvio, sono un problema: Adventura onlus è stata in attesa per un anno di una risposta dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano, per poter realizzare un ambulatorio per il trattamento dei DGS e dei DSA. Soldi che ci erano già stati assegnati e che noi abbiamo semplicemente richiesto di spostare su un altro capitolo. Dopo tanta attesa, è finalmente arrivata la risposta che ce li nega.
Ma l’impossibilità di avviare un progetto in Italia è anche radicata nella ricerca e nell’università, perché chi genera la teoria spesso non genera la pratica, mentre si impegna a difendere la propria scuola di pensiero per costruire una rete ed una lobby sugli obiettivi validi per la collettività.
Ma l’Italia è infine un paese d’arsenico e vecchi merletti, dei caffè di Sindona, degli immobilismi che questa crisi certo non aiuta a rimuovere.
Attraverso questi anni di tentativi, lo spaccato sociale e culturale del nostro Paese si è disegnato sempre più precisamente, fino a togliermi – vi confesso – la volontà di procedere.
Pietro fu diagnosticato, a memoria mia, in quattro sessioni. Era sempre presente a queste una neuropsichiatra, dalla quale mi mandò la mia psicologa. Questa neuropsichiatra è in pensione, ma ha lavorato all’AUSL come responsabile per la neuropsichiatria infantile e, una volta chiusa la parentesi pubblica, riviste le proprie posizioni sul comportamentismo, ha aperto, con alcune psicologhe, un centro riabilitativo che si chiama Kairòs ed opera a Piacenza secondo il metodo ABA. Il centro fa riferimento direttamente allo Iescum (Istituto Europeo per lo Studio del Comportamento Umano). 
Dopo un po’ di tempo, un annetto abbondante direi, soprii, per puro caso, che nel centro i bambini (tra cui mio figlio) erano assicurati per le sole responsabilità civili (tipo: gli cade addosso uno scaffale all’interno del centro stesso), ma non per i danni eventualmente provocati dagli operatori o, più probabilmente, dagli altri bambini. Consideriamo che i bambini che soffrono di DGS, sovente, hanno atteggiamenti aggressivi diretti verso se stessi e verso il prossimo.
Cercarono di spiegarmi che questo era per non gravare eccessivamente sui costi orari delle terapie, probabilmente dando per scontato che io non sapessi quanto costa assicurare un bambino. Invece lo sapevo, perché lavoravo in una cooperativa sociale, e per questo a maggior ragione mi sentivo presa in giro.
Naturalmente, questo minò seriamente il rapporto con Kairòs e cambiò una serie di assetti relazionali dai quali discese una buona parte dello stop locale al progetto.
Ad esempio, il direttore della neuropsichiatria di Piacenza si rifiutò per anni di incontrarmi, mentre manteneva relazioni costanti con la neuropsichiatra del centro, che aveva avuto come collaboratrice all’epoca in cui lei serviva il pubblico. Ho dovuto richiedere l’intervento delle più profonde mani nella gestione dell’AUSL per riuscire ad incontrarlo e ricordo ancora oggi la telefonata che ne ricevetti come feedback trasversale (non mi disse tizio ha detto che tu, caio ha detto che voi, perché non si sa mai se e chi ha eventualmente detto cosa) da colui che in prima persona si era adoperato per facilitarmi il nutrito incontro; mi chiese così, senza tanti giri di parole: “ma è vero che hai offerto delle "cose" per lavorare di più?”. Per fortuna avevo un tale numero di testimoni a quell’incontro (perché ho capito il mondo come va e non mi fido più di nessuno) che suggerii al mio facilitatore di dissuadere i suoi referenti interni dal procedere su questo genere di argomenti, o sarebbero velocemente stati querelati.
Questo è un fatto interessante, così tipicamente autoctono, perché “la calunnia è un venticello”… Serve bene l’episodio per comprendere quali sono in Italia le modalità con cui opera il potere di Don Rodrigo, quando non basta il primo stadio della strategia di neutralizzazione del nemico.
Ma non fu solo l’AUSL a lottare per il suo predominio nel campo. Ogni professore universitario che abbiamo incontrato era molto molto più interessato a sponsorizzare se stesso che a far parte di una rete di intelligenze al servizio di un obiettivo più alto: insomma, ciascuno vuole il suo mausoleo. Sono pochi disposti a cooperare veramente, come avrebbe dovuto essere nel comitato scientifico che intendevamo costituire: tanti progetti, ciascuno assegnato ad un primus inter pares, cosa che li avrebbe costretti a confrontarsi con le altre eminenti professionalità, oscurando la propria luce personale.

martedì 1 novembre 2016

Accadde a Gela - La legge morale dentro di me

“Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra. Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? chiede Kublai Kan. Il ponte non è sostenuto da questa o da quella pietra - risponde Marco - ma dalla linea dell'arco che esse formano. Kublai Kan rimase silenzioso, riflettendo. Poi soggiunse: Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa. Polo risponde: Senza pietre non c'è arco.”
Italo Calvino (Le città invisibili)


I bisogni da cui nasceva il progetto disegnano un mosaico di obiettivi generali e specifici. Questi, come le pietre di Marco Polo, solo “legati” insieme possono svelare l’obiettivo più profondo e reale: costruire un nuovo modello di società e ad attuarlo attraverso la trasformazione del modello del welfare, nel sistema dell’educazione e dello sviluppo dell’individuo, in un rapporto dialettico con ciò che è altro da lui e permeabile alle differenze.

Volevamo mettere a frutto ed a disposizione la nostra esperienza e riuscire a coniugare gli aspetti valoriali dell’interesse sociale e quelli economici delle strategie d’impresa. Senza questo, è impossibile riuscire a costruire l’arco e, quindi, il ponte.
È, la nostra, un'idea che individuava un mercato sostanzialmente nuovo, per alcuni versi, e - laddove non è nuovo il mercato - nuovo è il modo di intrepretarlo, intercettando non una domanda, ma un insieme di domande cui è possibile fornire un insieme di risposte che possono e devono essere date in maniera integrata, attraverso un approccio che rispetti le regole che fanno di una buona idea un'idea di business: efficacia, efficienza ed economicità.
Per riuscire a farlo, lo sforzo inizialmente più oneroso è stato quello di cercare di comprendere e poi di dimostrare che il mercato disegnato è “vero”: con uno sforzo di semplificazione, riteniamo che un mercato vero abbia un modo per certo di essere aggredito con soluzioni di business. Se non ce l'ha, non è un mercato. Neanche nel mondo del welfare.
Abbiamo disegnato i contorni di un progetto che non è un’utopia e non definisce una piaga, ma individua risposte per un insieme di problemi, con rischi e opportunità. L'educazione, la formazione, la disabilità sono temi che possono avere risposte differenti, più o meno efficaci, più o meno efficienti, più o meno economicamente sostenibili. Il nostro obiettivo, quindi, è stato quello di delineare quelle che secondo il nostro piano sono le risposte più funzionali.
Un problema necessita di risposte principali e di risposte "accessorie”. Abbiamo intuito che esiste una serie di problemi diretti: la scuola, l'assenza di un insieme di modelli educativi di riferimento, la necessità di declinarli lungo le specificità degli individui formati o da formare, il bisogno di creare delle professionalità che intercettano in maniera olistica i bisogni e li affrontano in un quadro unico di riferimento, senza banalizzare il processo di crescita. Professionalità disposte ad investire su se stesse, per una formazione permanente che le tenga costantemente aggiornate.
Condividere un sistema valoriale, in questo caso come - pensiamo - in via generale, significa quindi trovare delle soluzioni vincenti per gli imprenditori e vincenti per i portatori di interesse, che sono quanto mai articolati sia complessivamente e sia per ogni filone che compone il progetto.
Condividiamo un codice di comportamento etico basato sul principio che lo sviluppo del welfare (ed in particolare dei servizi socioeducativi all’infanzia che vogliamo realizzare) debba trarre vantaggio da scelte politiche ed imprenditoriali di lungo termine che comportano il rispetto del contesto sociale ed ambientale: lo sviluppo che vogliamo è fondato sul criterio della sostenibilità, cioè deve essere sostenibile nel lungo periodo, economicamente conveniente ed eticamente e socialmente equo verso l’individuo e la comunità.
Crediamo che sia possibile costruire una società multiculturale, che si fonda sul confronto tra le differenze perché le conosce e non ne ha paura, perché le interpreta come una ricchezza. Crediamo in una società più equa, che nella parità di diritti e nella parità di doveri vive ed interpreta l’individuo come elemento fondante e dove l’individuo si sente elemento fondante, conoscendone e riconoscendone conosce le regole e le rispetta. Crediamo in un welfare sinonimo di crescita culturale e di benessere per tutti, che risponda ai bisogni reali, con un approccio strategico che esalti e faccia risaltare il ruolo e le responsabilità di tutti i portatori d’interesse, senza sovrapposizioni, integrando tutte le risposte esistenti attraverso un coordinamento delle forze in campo, riconoscendo il valore della ricerca e della formazione; un welfare attuato con un approccio tattico che lo renda economicamente sostenibile. Perseguiamo la realizzazione di un mercato del lavoro che abbia rispetto dei professionisti che vi operano, che ne riconosce la professionalità ed il valore del lavoro, anche in termini di inquadramento contrattuale, retribuzione, aggiornamento professionale e formazione. Infine, crediamo in un sistema economico collaborativo, dove gli attori riconoscono il valore reciproco, costruendo un sistema di cooperazione che esalti le peculiarità di ciascun erogatore, nel rispetto di principi di qualità condivisi e sottoscritti e di un modello di erogazione che accompagna gli individui nei vari aspetti che caratterizzano i bisogni, senza standardizzazioni “al ribasso” dei servizi con un meccanismo di contenimento dei costi derivante dalla condivisione di strutture e risorse.
Queste sono le cose in cui ancora oggi, seppur faticosamente, crediamo.
Condividere un sistema valoriale, tuttavia, non è sufficiente per garantire la sostenibilità – anche economica – di un progetto che ambisce a realizzare un processo di trasformazione culturale e sociale. Bisogna individuare un’architettura industriale che riesca a interpretare ed a rispondere in maniera efficace alle diverse necessità degli attori del mercato di riferimento. Ma questo è un argomento da piano industriale, che in questo luogo non trova sede.
Serve però infine – e questo è un problema sociale e nuovamente politico – restituire all’approccio lobbystico nel nostro Paese il suo originario significato anglosassone: un gruppo d'interesse che agisce in modo da influenzare le decisioni dei legislatori, gli atti del governo e degli enti di controllo chiedendo rappresentanza legittima delle proprie istanze. D’altro canto “deputato” significa proprio “scelto per un compito da espletare da solo o con altri secondo un preciso mandato”, ovvero “rappresentante”.
Sarebbe invece auspicabile che la parola lobby perdesse quel retrogusto di “mafioso”, affinché l’andare a parlare con un parlamentare, un presidente di regione, un assessore o un sindaco o semplicemente un dipendente pubblico non ti faccia più sentire la necessità di penetrare la cricca degli amichetti. Sarebbe bello se al sistema fosse restituita una verginità che non corrisponde, semplicemente, alla ricostruzione dell’imene.

venerdì 28 ottobre 2016

Accadde a Gela - Metti un mattino d'autunno

Era ottobre del 2008. L’impegno politico nella campagna amministrativa di Reggi mi aveva fruttato una sincera amicizia con la ragazza a capo della sua segreteria. Lei, carinamente, quando seppe che in Agenzia d’Ambito cercavano un ingegnere per sostituire una maternità, si fece dare ed inoltrò il mio curriculum. Morale: da gennaio 2008 lavoravo in via Taverna ancora di più di prima, quando ci stavo solo per l’informatizzazione dei sistemi dei Servizi Sociali. Vabbè, ma questa è un’altra storia.
Dicevo, era ottobre del 2008. E siccome lavoravo in via Taverna e non mi ero trovata bene al nido dove Pietro era stato iscritto l’anno precedente, decisi di selezionare nella domanda al Comune come unica chance quel nido, che aveva sede proprio lì. Se mi prendevano bene, se no ci sarei andata privatamente.
Preme sottolineare che Pietro fu preso attraverso la strada comunale, a tariffa piena secondo l’ISEE.
L’anno che stava per avere inizio (scolastico, ovviamente) avrebbe portato con sé la radicale trasformazione di tutte le nostre vite. Un giorno non troppo lontano ci saremmo svegliati e “Goodmorning Vietnam”.
Ma quel giorno non era ancora arrivato e così fui io, entrando in ufficio della cooperativa, che chiesi alla persona dietro al banco di incontrare la Presidente. Ero solo una mamma. Il giorno la Presidente dopo mi chiamò. La invitai a pranzo e le feci vedere la serra che c’è nel giardino della casa dove abitiamo a Piacenza. Proprio la serra che oggi conoscono in tanti qua a Piacenza.
Lì mi sarebbe piaciuto fare qualcosa di speciale per i bambini. Laboratori in inglese, un nido, una scuola, qualcosa. Lei mi disse: “piacerebbe anche a me; andiamo avanti”. Le cose si sono evolute in modo molto diverso e la serra oggi è un’altra cosa, ma questa è un’altra storia e la dovrò raccontare un’altra volta.
Quella cooperativa era nata agli inizi del nuovo millennio, dalle ceneri di un’associazione di genitori che aveva gestito da precursore alcuni servizi educativi e che aveva poi deciso di strutturarsi meglio.
Di quegli anni io non conosco la storia. In tanti me l’hanno raccontata, tutti con sfumature diverse, con frustrazioni diverse, con lamentele diverse.
Avendoci lavorato abbastanza a lungo, ho avuto modo di farmi alcune idee precise in merito alla cooperazione sociale, al suo rapporto con le istituzioni, alla “capacità imprenditoriale” di questo mondo, al modello democratico di gestione dell’azienda ed alla degenerazione del rapporto tra cooperazione e politica, in particolare nella nostra regione.
Scendere come un sommergibile in questo universo profondo e in parte sommerso, sconosciuto, ha fatto sì che gli aspetti umani e quelli professionali delle relazioni intessute si siano intrecciati indistricabilmente e le fatiche condotte per affrontare progetti e crisi parimenti hanno reso alcune tra queste piuttosto complesse.

lunedì 17 ottobre 2016

Accadde a Gela - Non si maltratta una Signora

Articolo 2
La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

Articolo 3
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Articolo 9
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Costituzione della Repubblica Italiana




Visto che belli? Quale capolavoro superiore a questo per democrazia, responsabilità sociale, visione politica? È la nostra Costituzione, una Signora Costituzione, e sancisce in questi articoli inderogabilmente alcuni diritti dell’uomo ed i doveri che ha la nostra Repubblica per garantirli.
Sentite come suona bene “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale”. Poi, dopo aver letto i costi per una famiglia per un trattamento intensivo ABA, per forza sembrano parole ancora più belle.

Non si maltratta una Signora e, siccome siamo persone ben educate, ecco a che cosa abbiamo piegato le nostre menti non convenzionali: cercare di promuovere sistemi educativi che basandosi su questo trattamento permettessero la massimizzazione delle ore di intervento e la minimizzazione dei costi per le famiglie, inizialmente a parità di costo per la PA. In altre parole, abbiamo cercato di guardare questa cosa come si guarda un business: conto economico e finanza, linee di servizi integrate tra di loro, ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse umane, utili a fine d’anno maggiori di zero per poter far fronte ai nuovi investimenti, esportare il modello, costruire un brand nazionale. Paradossalmente, oggi abbiamo un brand internazionale, un marchio registrato, una partecipazione alla Doing Good Doing Well competition (IESE Business School - Barcellona, con una delegazione di Bocconiani convertiti al sociale), a febbraio 2012, per presentare il nostro progetto e nessun interlocutore pubblico italiano interessato a parlare a qualsiasi titolo con noi di questa roba. Io vi confesso: non capisco e a volte mi viene voglia di arrendermi. Ma sotto la cenere il fuoco continua a crepitare.

FuzzyMinds è un progetto enorme che contiene al suo interno una varietà potenzialmente infinita di filoni. È piuttosto un incubatore di progetti sociali destinati all’educazione, all’infanzia ed alla genitorialità. Ognuno dei progetti sociali in esso contenuti sta in piedi da solo e massimizza il suo rendimento in interazione con gli altri.

FuzzyMinds contiene al suo interno l’idea precisa di una strutturazione gestionale ed organizzativa del business, prendendo spunto dalla ferma convinzione che abbiamo che la cooperazione, ed in particolare la cooperazione sociale, sia da ristrutturare, in primis dal punto di vista dell’assetto e dell’approccio aziendale.
E siccome nessuno ci calcola e siccome siamo entrambi capetoste, noi abbiamo iniziato a realizzare FuzzyMinds a dispetto dei santi. Siamo partiti da Piacenza.

Adventura Onlus era l’associazione di volontariato che abbiamo fondato e, in attuazione del nostro progetto, con un ente erogatore, proprio secondo il modello industriale che avevamo ipotizzato. Oggi Adventura è il nome della mia società di consulenza, ma solo perché stiamo aspettando di spiccare il balzo e ripartire da lì.

domenica 16 ottobre 2016

Accadde a Gela - Caro amico di penna...

Era il 6 settembre 2010 quando scrissi questa mail ad un ragazzo dello staff di Walter Veltroni.

Ciao S.,
Ti allego la presentazione su cui stiamo lavorando per la discussione con gli enti finanziatori. Gli economics sono un po’ datati (oggi sono migliori), ma non è la parte principale di cui voglio discutere. Dentro il ppt è possibile trovare le linee principali del progetto, che così ti sintetizzo.
Si tratta di costruire un centro polifunzionale per bambini e famiglie strutturato su alcuni assi portanti:
- polo scolastico
- polo famigliare
- polo di accoglienza per bambini allontanati dalla famiglia con sentenza del tribunale dei minori
il tutto in particolare declinato sulle esigenze dei bambini con problemi di disturbi generalizzati dello sviluppo.
Il progetto raccoglie al suo interno un centro educativo in età 0-11, per bambini neurotipici e bambini con diagnosi. Il fondamento del progetto è che un bambino con handicap può sfruttare al meglio le sue potenzialità abilitative se inserito – con le opportune professionalità – in un ambiente il più possibile “normale”. Poi un centro per le famiglie per informare, formare, indirizzare la famiglia e erogare counselling e terapia comportamentale ai portatori di handicap. Infine un centro specializzato con personale altamente qualificato per accogliere bambini che – indipendentemente da possibili patologie neuropsichiatriche – hanno bisogno di un accompagnamento veramente specifico.
Ti parlo con franchezza. Ho iniziato a lavorare a questo progetto nel 2004. Fai tu… all’epoca mancavano 2 anni alla nascita di mio figlio, che il caso ha voluto nascesse autistico. Quindi nello spettro generale dei DGS. Conosco la materia per passione (non per lavoro, faccio l’ingegnere) e per vita vissuta.
A 4 mesi dal caso di Gela – dove una madre con un figlio autistico ed uno in fase di valutazione li ha affogati cercando di togliersi poi la vita – ti posso dire che:
1) comprendo – non giustifico – il gesto di una madre abbandonata dallo stato. Una famiglia, in queste condizioni, non ci mette nulla a saltare;
2) una famiglia con un figlio in queste condizioni – ammesso che venga a sapere che esiste una terapia per curare il bambino – arriva a spendere tra i 2300 € ed i 2700 € al mese per la terapia; se ce li ha. Se no si tiene rain man.
3) lo stato ti riconosce una pensione di invalidità, ma non le terapie necessarie – ed esistenti.
Noi stiamo semplicemente cercando di costruire un polo – dove prenda piede la sede di un centro di ricerca applicata in collaborazione con i principali istituti universitari di ricerca – per riuscire a:
- costruire una società multiculturale capace di accogliere le differenze come un valore;
- erogare terapie a tutte le famiglie che ne abbiano necessità, secondo un sistema perequato in funzione del reddito, affinché la/ le terapia/e non siano derivazione di una situazione censuaria;
- costruire un centro di eccellenza nel nord Italia, da riportare in un secondo momento al centro ed al sud. Tutto questo – semplicemente – perché sono di Piacenza e da qui sono potuta partire con il sistema di relazioni e di conoscenze che la mia vita mi ha dato.
Noi siamo una cooperativa di cui – se vuoi ridere – io non sono nemmeno socia cooperatrice, ma semplicemente madre di un bambino autistico che qua dentro ha trovato l’unico luogo di accoglienza seria e professionalmente ed umanamente preparata. 
Sono ingegnere però ed ho specifiche competenze di natura gestionale. Sicché, con le sinergie con loro, ho costruito il piano industriale ed il piano economico – finanziario. Ci tengo a dirti una cosa: gratis. Te lo dico non perché sono buona, ma perché credo in una società in cui gli individui mettono le loro competenze al servizio della costruzione di un futuro migliore per tutti. E non perché mio figlio è autistico, ma perché ci sono 3/100 bambini diagnosticati in quel mondo, più tutti quelli che alla diagnosi non ci sono mai arrivati. Ed in un bambino così, 6 mesi sono quelli che possono fare la differenza. Ed una famiglia va accompagnata lungo la consapevolezza di un male che può essere arginato.
Ora, i problemi – anche politici (in senso lato) – cui un progetto di questo tipo può andare incontro sono molteplici. E si declinano lungo diversi assi. Da quelli economici, a quelli culturali a svariate decine di altri aspetti.
È vero: ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di creare sinergie, di costruire un consenso forte intorno a questa iniziativa, dal livello locale a quello nazionale e – perché no – europeo. Ma ho anche bisogno di confronto, di poter parlare con qualcuno, di poter capire altri punti di vista rispetto al mio. Ci tengo a dirti che un polo di questo tipo in Europa non esiste. E credo che sia prevalentemente un problema di approccio culturale.
Se mi chiedi perché ho scritto a Veltroni, semplicemente è questo: so chi è, so che uomo è, è stato il mio segretario due volte ed io sono stata segretaria di un PD nel quale ho fortemente creduto. Oggi, l’entusiasmo di un tempo ti confesso è calato. Ma resto aderente all’idea che un futuro migliore non può prescindere da una forma di impegno e di cooperazione che è prima di tutto autogaranzia. Un po’ “per chi suona la campana”.
Questo è quello che voglio chiedere a Walter. In primo luogo, la possibilità di spiegargli nel dettaglio cosa significa questo progetto, il contesto in cui si inserisce e gli obiettivi che si prefigge. Capire se ci sono gli spazi per procedere, sentire un’altra voce. Avere dei consigli: strategici, politici, di indirizzo. E provare a costruire un pezzo del domani che voglio che mio figlio possa vivere pienamente.
Il progetto c’è: cresce, scalcia, siamo in trattativa per comprare la sede. Ma tutto questo non basta. Serve di più. Serve che il nostro Paese ricominci a guardare dentro se stesso, perché non si dica più: “dobbiamo tornare tra la gente comune”, come se noi dirigenti di questo partito fossimo qualcosa di antropologicamente differente.
Grazie per l’attenzione.
Benedetta
PS: mercoledì mattina saremo a Bologna per discutere con Cooperfidi del progetto e capire se sono disposti a garantirlo.

Il giorno 20 ottobre 2010 16:38, xxxxxx <pd.xxxxxx@camera.it> ha scritto: 
Cara Benedetta,
ho letto con molto interesse il tuo bel progetto, pieno di sensibilità e di intelligenza. Purtroppo, però, non saprei attualmente come aiutarti, se non invitandoti a insistere, perché le buone idee alla fine la spuntano sempre. Ovviamente, come sai, la cosa migliore è cercare interlocutori nelle amministrazioni locali. In bocca al lupo.
Un caro saluto
Walter Veltroni

Date: 21 ottobre 2010 11:25
Oggetto: Re: da Walter Veltroni
Ciao Walter,
Grazie della risposta, ok recepita. 
Vorrei solo aggiungere alcune considerazioni. 
Credo e spero che i temi di patologie che investono 3 bambini su 100 (senza contare il sottobosco dei non certificati) dovrebbero essere ritenuti all'ordine del giorno della politica e ritengo che sia anche questo il compito delle persone che sono da noi state deputate a rappresentarci in Parlamento.
Come già ti scrissi, non è possibile che lo stato lasci sole le famiglie ad affrontare spese mensili in terapie pari a circa 2500 € (un ottimo stipendio, considerato che deve essere netto tasse), riconoscendo al più un assegno di invalidità di 480 €/mese.
Non è possibile accettare impegni statali sulla sanità inferiori a quelli che stanzia una singola regione. Credo che di questo si dovrebbe parlare.
Temo ancora una volta che la vita reale e il mondo produttivo, universitario, lavorativo, cooperativo superino in vision la politica, che da lanterna di Diogene sta retrocedendo sempre di più a cerino...
Certo, le amministrazioni locali sono interlocutori presso i quali già da tempo ci stiamo muovendo per una partnership; interlocutori che però per i tagli che il governo sta operando nei trasferimenti e per l'assenza ormai di gettiti diretti che non siano legati all'addizionale IRPEF o poco più, piangono giustamente un'ingiusta miseria. Il nostro comune taglierà nei prossimi 3 anni circa 7 milioni di euro, per minori introiti legati alle diminuzioni dei trasferimenti e per le conseguenze del patto di stabilità. Provincia e Regione hanno anche loro le loro difficoltà e non devo raccontartele io.
La consapevolezza del contesto politico, sociale ed economico in cui viviamo mi sta spingendo a fare il fund raising unicamente presso le fondazioni private, proprio perché so che il pubblico è alla canna del gas. Infatti ti avevo già avvisato che non ero alla ricerca né di soldi né di aiutini. Avrei voluto parlarti di questo. Avrei voluto semplicemente domandarti che cosa pensa il nostro partito di queste cose, come pensiamo di affrontarle in una battaglia parlamentare. Avrei voluto chiederti di aiutarci ad avviare una sensibilizzazione politica su queste istanze, perché non investire su questi bambini - oltre che crudele, perché gli neghi il diritto ad una vita il più normale possibile - è anche stupido: da adulti, ti costeranno molto di più. E la patologia statisticamente è in costante aumento.
Sai, io son fortunata, perché ce li ho quei soldi che mi servono per curare mio figlio. E sono fortunata perché avendo iniziato a curarlo prestissimo, forse riuscirò a ottenere l'obiettivo di breve termine di mandarlo a scuola senza sostegno. Che significa:
1. che lui avrà fatto progressi enormi sulla via della normotipizzazione dei comportamenti;
2. che potrà evitare l'umiliazione di essere/sentirsi/essere trattato da diverso;
3. che lo stato risparmierà i soldi di un insegnante di sostegno (purtroppo impreparato ad affrontare il suo compito) e potrà utilizzarli altrove.
La madre di Gela di cui ti ho parlato non aveva davanti questa prospettiva. Infatti, i suoi due figli li ha ammazzati. Al loro funerale, avrei voluto che fosse celebrato anche quello dello stato sociale, che lentamente è morto perché lentamente è morta una politica fatta di osservazione, percezione, anticipazione e progettualità.
Ciao Walter. Seguirò il tuo consiglio. Insisterò nella mia idea e crepi il lupo.
B

sabato 15 ottobre 2016

Accadde a Gela - FuzzyMinds

Chi ha avuto il coraggio di guardare il nostro piano industriale (e l’abbiamo portato in giro fino a Barcellona!), ha trovato nella prima pagina il nostro testamento spirituale. Testamento, perché per ora quel progetto è morto. O forse dorme, come la bella che aspetta solo qualcuno che la risvegli.

FuzzyMinds

È un progetto per la cittadinanza dell'oggi e del domani: un progetto che riguarda l'educazione e lo sviluppo dei bambini, le metodologie da adottare per renderli cittadini consapevoli di una società globalizzata (affinché non subiscano il processo, ma ne siano attori protagonisti), in un mondo che costringe al confronto con le differenze, che è in costante movimento e trasformazione e che genera la necessità di nuove forme di sostegno alla genitorialità per le famiglie, con soluzioni diverse progettate in funzione della realtà del nucleo famigliare.

Stiamo lavorando con determinazione per la creazione di un nuovo modello di società più equa, aperta e consapevole, nella quale anche il sistema del Welfare possa essere rinnovato nell’approccio, nelle modalità di relazione tra gli attori, nelle modalità di erogazione dei servizi e nell’esercizio attivo e pro-attivo, in generale, del proprio ruolo, in sinergico rapporto con gli enti pubblici o privati che operano a diverso titolo all’interno del sistema.

È un progetto che vuole realizzare un luogo dove le differenze possano fattivamente essere interpretate come un valore e non un problema; dove il contatto con culture e lingue differenti sia la quotidianità del normale percorso di crescita di un individuo; dove il confronto con l’handicap fisico o neuropsichiatrico sia in inclusione e non in contrapposizione; dove l’eccellenza dei servizi offerti è garantita dalla collaborazione tra le migliori professionalità operanti in Italia e nel mondo e con il sistema universitario pubblico e privato.

È un progetto che punta sul territorio volendo perequare l’erogazione dei servizi dal punto di vista tariffario, affinché tutti possano accedere indipendentemente dalla situazione economica del nucleo d’origine: non può dipendere dal censo l’educazione, non la cultura, ma soprattutto non la diagnosi e la terapia: non riteniamo più accettabile che curare le psicopatologie dello spettro dei disturbi dello sviluppo sia questione di opportunità sociale, culturale e/o economica; non è più accettabile che uno spettro diagnostico che colpisce 3 bambini su 100 incida sul bilancio famigliare fino a 2.500 – 2.700 €/mese; non è più accettabile che il sostegno scolastico erogato non sia altamente e specificamente specializzato in funzione della patologia del portatore di handicap.

È un progetto che vuole crescere e radicarsi: qualunque cattedrale, costruita nel deserto, è destinata a spopolarsi. Noi vogliamo invece collaborare alla ricerca ed alla formazione di professionalità nei temi delle metodologie educative e dei servizi di cura e vogliamo formare professionisti in tutta Italia. Vogliamo poter replicare questo progetto al nord, al centro ed al sud, costruendo un modello hub-spoke che abbia almeno tre centri principali ed una ramificazione di centri secondari diffusi con capillarità sul territorio.

È un progetto in cui crediamo, con la consapevolezza della responsabilità sociale che deriva dalle azioni che promuoviamo e realizziamo e convinti che attraverso l’assunzione di questa responsabilità sia possibile collaborare alla costruzione di una comunità più matura, solidale e migliore, operando in sinergico rapporto con le istituzioni pubbliche, senza mai sostituirci al necessario ruolo delle stesse.


Dunque, è evidente: dietro FuzzyMinds c’era un manifesto politico. Non appartiene alla destra e non appartiene alla sinistra perché noi, politicamente, non apparteniamo a nessuno. Le risposte ci sono mancate da una parte e dall’altra. A livello locale ed a livello nazionale. Vedrete, nel prossimo capitolo, il carteggio di un tempo in cui ho creduto che il PD avrebbe ricostruito l’Italia. Poi, prometto, torno al racconto.

mercoledì 12 ottobre 2016

Accadde a Gela - L'alleanza

Ci siamo conosciuti una mattina d'inverno di alcuni anni fa. Nella sede di una cooperativa di costruzioni, circondati da personaggi sospesi tra un film di Fellini ed un libro di Ammanniti; il complemento a quelli ed a noi erano persone perbene in età da pensione, ex comunisti afflitti da una delusione esistenziale, che studi con l’affettuoso interesse di un paleontologo.
Seduti quasi opposti alla tavola rotonda, non ci è voluto molto tempo (reciprocamente) per capire che ci capivamo. 
Certo, la domanda legittima è perché fossimo seduti contemporaneamente a quel tavolo.
Avevo dato avvio fin dal 2008 ad una manovra di avvicinamento con la Presidente della Cooperativa in cui ho lavorato. Volevo capire se in qualche modo potevo mettere a disposizione quello che sapevo e che sapevo fare, per avviare la realizzazione del famoso progetto (quello del sogno di mio padre), che oggi aveva però tutta un’altra luce.
Rappresentavo quindi all’epoca (in maniera non ancora formalizzata) gli interessi di quella cooperativa. Diciamo che facevo la consulente, anche se in verità non c’era nessun contratto ancora a regolare i nostri rapporti e quel che facevo lo facevo a titolo gratuito.
Un architetto di belle speranze aveva creato il collegamento tra noi e Quadrifoglio Piacenza, la società di scopo costituita per sviluppare l’area dell’ex Manifattura Tabacchi, dopo che Tremonti aveva dato luogo – a partire dal 2001 – alla sua bolla speculativa di cartolarizzazioni del patrimonio pubblico, ivi compreso quello del Ministero delle Finanze.
Lui dunque rappresentava (da “tecnico”) gli interessi del veicolo, ovvero – più profondamente – del socio di capitale dell’operazione. 
Al tavolo, quindi, nella presentazione sommaria dei contenuti del progetto, peroravo la causa dell’educazione per tutti, delle terapie calmierate, di una società aperta e multiculturale, dell’integrazione fattiva per i bambini portatori di handicap e per le loro famiglie. Mi chiesero: “Quali handicap?” “Sì” rispose lui “quelle cose lì tipo l’autismo”.
A me quella parola suonò come un elettroshock; ero molto sensibile all’epoca. Lo fulminai e tra me e me pensai con sdegno “E tu che ne sai?”. “Sì,” ho detto io “tipo.”
Avvenne poi il sopralluogo, dove dunque ci incontrammo una seconda volta, in un’area di belle potenzialità – molto tetra – che oggi rappresenta per me uno dei posti più familiari di tutta Piacenza. Conosco ogni capannone, riconosco ogni variazione che avviene al suo interno e so precisamente riconoscere da cosa è stata generata, tra le razzie delle bande di ragazzini e di quelle più organizzate che cercano rame.
Ogni sasso, lì, oggi, ha una sua storia legata a questo progetto e alla mia vita intrinsecamente. Ogni buco nei vetri è il suggello di un patto cresciuto nel tempo e destinato a sopravvivere al di là di questa storia. 
Comunque, il giorno del sopralluogo – ricordo ogni parola – sopraggiungendogli da dietro gli ho detto “Lei deve aver insegnato al Politecnico, o giù di lì”. “Come fa a saperlo?” mi rispose. Semplicemente, ricordavo di averlo incontrato, circa 10 anni prima, nei corridoi del MIP, dove ero appena stata ammessa ad un master che poi non ho mai frequentato, perché ho preferito un caldo stipendio di Accenture. Ma il fotogramma di quello strano uomo un po’ arruffato nei corridoi del Politecnico era rimasto sepolto per tanto tempo, nitido nei contorni e pronto per riaffiorare finalmente.
Camminando lungo il viale che separa i capannoni e porta a ritroso all’ingresso dell’area, dandogli finalmente del tu, gli dissi scanzonata “Tanto lo sai che se non la vendete a noi vi rimane sul groppone per i prossimi 10 anni”. Lui ha semplicemente sorriso, ha abbassato gli occhi e mi ha detto “Sì, lo so”. In effetti, ce l’hanno ancora sul groppone.
È così che ci siamo conosciuti: la più grande crisi economica dopo il ’29 da cornice per quella che nella mia testa rimane la più grande operazione di trasformazione sociale mai ipotizzata nella storia della Repubblica e nemmeno un soldo per portarla a termine. Deve essere così che nascono le sceneggiature dei film. Un certo periodo ho creduto che magari un lunedì avremmo pagato 8 euro per andare a vedere qualcuno che rappresentava noi stessi.
Comunque, al primo tavolo di trattativa eravamo già “alleati”. Ci incontrammo il lunedì successivo.
“Voglio aiutarti”, disse. Io non sapevo perché, ma gli istintivamente gli credetti.
Gli mostrai quei conti che ancora oggi gli rinfaccio di non aver mai veramente guardato. Gli parlai di questo progetto, gli raccontai di quei bambini che tanto bene conosco e gli chiesi che ne sapesse lui dell’autismo. “Niente,” rispose candido “non so perché mi sia venuto in mente”. “Uno di quei bambini è mio figlio”. 
Poche settimane dopo gli presentai Pietro. Oggi può testimoniarne le trasformazioni. Oggi è per Pietro un amico, un riferimento, un compagno di giochi.
Credo, in fondo, che nella sua pazzia sia l’unica persona che non ha mai visto, guardando mio figlio, un bambino autistico, quanto piuttosto semplicemente un bambino.
Ecco. Da allora abbiamo incontrato professori universitari, ricercatori, finanziatori, psicologi, educatori, terapisti. Abbiamo provato a convincere con lo slancio, con la passione, con la ragione. Ma nessuno ha raccolto la scommessa, la sfida. Tutti, come sempre in Italia, hanno aspettato che sfondassimo da soli, oppure che annegassimo con il nostro autismo. Proprio come accadde a Gela.

martedì 11 ottobre 2016

Accadde a Gela - Mal Comune

Per affrontare queste prove serve forza, temperanza e – lo dico ancora una volta – una buona dose di spregiudicatezza. Ovviamente, serve anche fortuna. Non è facile stare a guardare tuo figlio che si butta per terra, che sbatte la testa contro gli spigoli mentre tu, per lui, non puoi far altro che cercare di evitare che si faccia male; e quando lui piange e si dispera, tu non lo devi guardare, niente contatto oculare, niente parole per calmarlo, niente di niente. Questo, ovunque capiti la crisi, anche in mezzo alla strada, nella piazza principale il giorno del mercato.
E fu proprio nella piazza dei mercanti, una mattina, che vidi una vecchietta dai lunghi capelli bianchi domati in una retina nera. Lei stessa era inviluppata in un cappotto ed in un foulard di pizzo tutti neri. Pietro – sdraiato per terra – esibiva il meglio delle sue rappresentazioni. Lei mi guardò e, colma di disprezzo, a mezza voce disse: “non sono proprio più capaci di educare i genitori d’oggi”.
Quel giorno tornavo con mio figlio da teatro, dov’eravamo andati con la scuola. Avevo deciso che doveva provarci anche lui, ma la sua terapista/educatrice di sostegno non c’era: dovevo esserci io. Per fortuna, l’altra terapista di Pietro era educatrice di sostegno di un altro bimbo.
Il ritmo degli avvenimenti era stato incalzante: la crisi nella hall del teatro; il progressivo avvicinamento alla tenda; la maschera interdetta che guarda me e mio figlio; io che mi giustifico e le dico “è autistico, sa…”. E finalmente, la mia vittoria: gli ultimi cinque minuti di spettacolo visti da dentro la sala.
Io, faticosamente, con gli occhi gonfi tenevo a freno, in via Calzolai, la crisi di Pietro e il desiderio di uccidere la vecchina.
Oggi lui è quasi un bambino qualunque. Ma lo Stato e le sue declinazioni minori o le aziende pubbliche di sua emanazione non hanno meriti in questo.
Il settore formazione del Comune di Piacenza, ricevuta la lettera di richiesta del sostegno educativo a firma dell’AUSL,  ha iniziato ad attribuire un contributo alla scuola materna che Pietro frequentava, perché mio figlio avesse 12 ore alla settimana un educatore di sostegno. Per intenderci e per non fare confusioni, 12 ore alla settimana sono meno di un terzo del tempo che mio figlio passava a scuola. Per queste 12 ore a settimana il comune riconosceva circa 560 €/mese, che divisi per le 4.1 settimane mediamente presenti nel mese standard e poi per le 12 ore erogate, significava sostanzialmente 11,40 €/ora. Una cooperativa un educatore non riesce a pagarlo (come costo del lavoro) meno di 14 €/ora, a meno che non sia un apprendista. Ma voi comprenderete che non si possono avere solo apprendisti.
All’epoca il Comune aveva un dirigente competente nel settore formazione per l’integrazione scolastica dei minori disabili veramente fenomenale; ovviamente, a luglio 2012 andò in pensione. Ne abbiamo pianto la partenza, per il terrore che venissero inglobate le sue funzioni da persone con troppo poca competenza e troppa arroganza; e così accadde.
L’”estate per tutti” - comunque - è un progetto comunale, nel quale i cosiddetti disagi sociali ed i portatori di handicap (se in carico ai servizi sociali e, come direbbe Mina, sottolineo se) tra i 4 e gli 11 anni possono accedere a tre settimane di centro estivo gratuito, presso gli enti convenzionati con il Comune di Piacenza. Per rimborsare gli enti convenzionati, il Comune fa riferimento ad una tabella dove, per una settimana di ospitalità dal mattino alla sera senza pernottamento e col pasto, venivano nel 2013 riconosciuti, per fare esempi numerici:
- Circa 240 €/settimana per portatori di handicap con necessità di sostegno 1:1;
- Circa 43 €/settimana per i bambini con disagio sociale.
Una settimana di pasti per un bambino alla cooperativa costa circa 25-30 €. Non aggiungo altro. C’è un problema di welfare.
Quando il primo anno cercai di informarmi sul servizio dell’estate per tutti per mio figlio, i servizi sociali (del comune di Piacenza, ovviamente) mi risposero che il bambino non era in alcun modo in carico a loro e che non sapevano nulla della sua esistenza. Credo peraltro di avervelo già detto. Fino all’ultimo hanno perorato questa posizione. Io – caparbiamente – mi sono ostinata a ritenere che il diritto di mio figlio a partecipare all’estate per tutti non potesse dipendere dal fatto che ancora una volta mi dovessi presentare nell’ennesimo ufficio dello stesso ente a cui da 3 anni raccontavo che ho un figlio invalido. E lo l’ho fatto perché mio figlio è stato certificato da una commissione nella quale sedeva un educatore sociale e perché Pietro da anni riceve il famoso contributo per il sostegno dal settore formazione. 
Lo facevo – certo - perché potevo permettermelo, anche se in ultimo a fatica. L’ho fatto perché voglio che la mia esperienza porti un frutto di integrazione che un sindaco o un assessore comunale ai servizi sociali devono pretendere, lavorando congiuntamente con i livelli politici provinciali e regionali corrispondenti. L’ho fatto perché desidero che noi cittadini abbiamo rappresentanti istituzionali impegnati a programmare interventi e servizi nell’interesse collettivo, tornando a dare onore al concetto di democrazia rappresentativa e di accettazione di un incarico politico o di una delega.

sabato 8 ottobre 2016

Accadde a Gela - Dov'è finita la nostra Famiglia?

Il 26 ottobre 2009 Pietro riceve la sua diagnosi privatamente. Il 2 novembre inizia le terapie. La settimana in mezzo la passo tra fare conto economico e flussi di cassa di quanto costerà questo intervento, pianificare le sessioni di formazione per la tata, i nonni, gli zii ed i famigliari e scrivermi nella testa il decalogo della mia nuova vita.
La prima regola è: chi non si adegua è fuori. Quindi, per circa un anno (abbondante) le nonne, gli zii ed i parenti stretti non hanno praticamente avuto relazioni con Pietro. È tosto dire a tua mamma “non puoi stare con lui, non sei in grado” e peggio è riuscire a farlo con tua suocera, che oltre a non capire non è nemmeno tua madre. È stata una scelta difficile, dura, faticosa e di sofferenza, ma ne è valsa la pena; la rifarei.
In quell’anno abbondante Pietro è stato con me, con Nicolò, con Andrea (la tata), con le maestre a scuola. Abbiamo fatto sì che l’educatrice di sostegno assegnata a Pietro fosse la sua terapista, cosicché lui avesse continuità di trattamento lungo tutta la giornata e ci siamo impegnati a raggiungere i primi risultati per poter restituire Pietro alla sua famiglia e, soprattutto, alla vita. Se sia stato giusto, un bene, non sta a me giudicare. Certo, alcune eccezionalità le ha perse per strada. 
I sentimenti che  sono cresciuti, si sono consolidati e si sono trasformati in me mi hanno fatto vivere con la sensazione di essere un pugile appena massacrato di botte sul ring.
Guardavo chiunque con sospetto, a partire da chi mi stava intorno più strettamente; ad esempio a partire da mio marito. In questo, non poteva mancare la fase della ricerca del gene colpevole. Proverrà dalla mia o dalla tua famiglia? Per questo aspetto però io e mio marito siamo stati fortunati: precedenti più o meno illustri si trovano in entrambi i lati dell’albero genealogico. Comunque, mi sentivo incompresa. Di più: sentivo che mi era stato negato, anzi strappato un diritto e poiché non sapevo precisamente mettere a fuoco cosa, la rabbia e la frustrazione aumentavano a dismisura.
Ho interdetto anche a mia suocera le relazioni con Pietro dopo il giorno di Natale del 2009.
Lei voleva consegnare un regalo a Pietro; io le dissi di metterlo insieme agli altri, sotto l’albero. Lui è autistico, mica scemo; capisce, lo vuole subito, mi guarda furente e mi sfida. Si butta a terra e inizia la crisi.
Era una prova di forza e dovevo vincerla io. 
Invece è lei che non capisce in quel momento e… “io proprio non capisco perché tu debba far piangere questo povero bambino” furono le parole con cui gli allungò il pacco. Infuriata, uscii dalla stanza e m’infilai in camera mia sbattendo la porta. 
Poco dopo, mi raggiunse mio marito e poi una veloce bussata sulla porta anticipò l’ingresso di sua mamma. “Vorrei chiederti scusa per quello che è successo prima, ma lo sai, io non sono d’accordo con la strada che avete scelto per Pietro. È crudele come metodo. Mi sembri una madre cattiva, insomma, una cattiva madre. In fondo, io ho cresciuto i miei quattro figli con la terapia del buon senso”.
È una fucilata.
Guardo Nicolò, che mi ricambia e, zitto, abbassa gli occhi. Tocca a me difendermi. 
“E si vede.” rispondo io. Chiedo ad entrambi di lasciare la stanza e mi ci barrico dentro, in attesa che arrivino i cognati per festeggiare il santo Natale.
Non siamo uniti mio merito ed io, in quel momento. Le incomprensioni che potevano già esistere prima assumono una dimensione angosciante. Tutto entra in crisi. Sono un tolemaico davanti alla dimostrazione dell’astronomia copernicana. Devo cambiare sistema di riferimento, devo ritrovare un nuovo equilibrio. Devo accettare quello che è successo per poterlo combattere; poi, devo imparare a guardare dal suo punto di vista, conoscere l’autismo per pensare autistico. 
Il resto, per me, è ininfluente. 
Da quel momento, non guardo più in faccia a nessuno: l’unico pensiero costante è Pietro. 
Ci vorranno anni di lavoro, anni di giudizi severi e di arroccamenti sulle proprie posizioni, in casa, tra me e Nicolò, per ritornare a ridere insieme, a confidarci, a parlare da amici. Per ricominciare a costruire, normalmente, con disincantata complicità, il futuro di un bambino strappato al suo lato oscuro.
Questo è più o meno quello che intendo quando dico che la coppia difficilmente sopravvive e comunque trasforma profondamente la sua dimensione. Sono veramente troppe e tutte insieme le prove fisiche e psicologiche alle quali si è sottoposti. Basta davvero poco per perdere la ragione, proprio come accadde a Gela.

venerdì 7 ottobre 2016

Accadde a Gela - l'Istituzione, questa sconosciuta

Nel 2008 i problemi di Pietro erano sempre più evidenti. Nel 2009 divennero macroscopici. Io avevo costruito un sistema di cura intorno a mio figlio che garantisse a me la possibilità di un lavoro, a lui la possibilità di giornate tranquille, a mio marito la serenità di fughe lontano da un ambiente a volte orribilmente teso ed ostile, alle persone che costituivano il sistema stesso un intervallo di tempo con Pietro adeguato a non farne leggere la notizia sulle prime pagine dei giornali.
Fin da quando è nato, Pietro ha avuto almeno una tata e sempre e comunque proveniente dall’Equador. La prima si chiamava Kerly; poi c’è stata Monica, cui fu affiancata Andrea (in un periodo delirante in cui stavo fuori casa dalle 7 alle 19), che poi si consolidò come unica in forze. Poi, lo abbiamo sempre violentato e costretto a stare al nido prima, alla scuola materna poi. A Pietro è stato imposto di imparare, con il supporto necessario, a vivere in differenti contesti sociali.
Ciò che invece è mancato, nella vita di mio figlio e della nostra famiglia, è l’istituzione pubblica.
Il contributo dello Stato e delle sue declinazioni, in ogni settore della nostra esperienza, è stato evidentemente, marcatamente, assente. Rende ancora più pesante questa assenza il confronto con quello che è successo a Gela, perché là ancora più chiaramente è mancato un sistema di riferimento, un sostegno, un indirizzo, una risposta, una cura.
Se l’autismo è patologia primaria e non è legata quindi ad altre malattie che inficino la durata della vita media, questi bambini sono fisicamente perfetti. La mia esperienza mi fa dire che per lo più i bambini autistici che ho conosciuto sono belli, sani, forti. In altre parole: ti sopravvivono. Credetemi, io capisco quella mamma, perché come lei mille volte mi sono domandata: quando noi saremo morti, che ne sarà di lui? Chi avrà tutti i soldi che servono per fargli proseguire le cure, se domani dovessimo avere un incidente in macchina?
Poi, c’è un altro punto da sfatare: la coppia che sopravvive (quella in cui i genitori non si separano) non è precisamente la norma. Comunque, la sua sopravvivenza è legata al figlio. La coppia, di per sé, perde completamente la sua connotazione, la sua dimensione, la sua autonomia e diviene genitoriale e basta. Che uno dei due fugga non è nobile, non è bello. Ma, umanamente, è comprensibile. Non ci sono più pizze il venerdì sera, non esiste il cinema, manca una passeggiata da struscio il sabato pomeriggio, zero shopping, tuo figlio non lo puoi portare in giro, lo nascondi, ti vergogni, sei giudicato per strada da chi non sa nulla ma comunque parla.
Dopo che Pietro ha avuto privatamente la diagnosi, l’iter ha previsto la richiesta della certificazione, che avviene attraverso un’apposita commissione mista AUSL-Servizi Sociali. Io ricordo perfettamente chi per l’AUSL era presidente di commissione. E chi era lì per il Comune di Piacenza, in rappresentanza dei servizi sociali, e chi infine per l’INPS.
La visita fu il giorno 19 febbraio. La lettera con la risposta arrivò datata 29 aprile. In duplice copia, con allegato in versione integrale e ridotta il verbale della commissione, il testo diceva: “Con la presente si notifica il verbale relativo all’accertamento medico-legale effettuato nella seduta del 19/02/2010 in base al quale la S.V. è stata riconosciuta handicappata”. L’altra lettera di accompagnamento, leggermente più delicata, sostituiva la parola “handicappata” con “invalida”.
Il medico AUSL, al termine della valutazione, mi diede a mano il foglio per il sostegno scolastico, da consegnare alla scuola dell’infanzia, che a sua volta l’avrebbe inoltrata al settore formazione del Comune di Piacenza.
Questo è l’unico passaggio che ha funzionato.
Per il resto, quando nel 2010 chiesi di avere, come previsto in virtù dell’handicap di Pietro, tre settimane di partecipazione gratuita al centro estivo (secondo il bando “estate per tutti”) ad agosto l’assistente sociale di riferimento, al telefono, mi disse che i servizi sociali non avevano in carico Pietro, nonostante il Comune, nel settore formazione, da 6 mesi gli desse il contributi per il sostegno educativo.
D’altro canto, l’AUSL, nella persona del dottore che oggi è finalmente il neuropsichiatra di riferimento di mio figlio, è venuto a conoscenza della patologia di Pietro solo il 27 febbraio del 2012, quando ci siamo presentati da lui per chiedergli cosa dovessimo fare per l’iscrizione del nostro bambino alla scuola dell’obbligo.
Naturalmente, l’INPS ci riconosceva fino al secondo controllo 480 € al mese circa di pensione d’invalidità (finalmente ridotta al solo accompagnamento scolastico dopo l’esito della terza visita di controllo della certificazione, grazie agli incredibili progressi che ha fatto Pietro). Adesso so peraltro che per alcuni aspetti la procedura per la presentazione della richiesta si è notevolmente semplificata rispetto a come era quando feci domanda io, anche se ora è previsto che la richiesta per la certificazione possa essere presentata solo da uno specialista dell’AUSL. Se pure è comprensibile la ratio, trovo ancora in alcuni neuropsichiatri del servizio pubblico una resistenza difficilmente comprensibile a diagnosticare una patologia dei disturbi dell’età evolutiva. Ma poiché sono cose, queste, che riguardano altre famiglie, non mi soffermerò su queste storie.
Aggiungo a questo che Pietro frequentava la scuola materna a tempo pieno, oggi le elementari. Il sostegno gli è attribuito dal Comune per 12 ore a settimana. Più avanti, vedremo anche con quali costi per l’Amministrazione e quali per chi eroga il sostegno.
Ciò che è certo, è che la sanità pubblica, in Emilia Romagna, non contempla l’ABA come trattamento per l’autismo, o meglio lo contempla ma non per tutti e non con convenzioni sanitarie pubblico - privato che diano la possibilità di una risposta efficace al problema quantitativamente parlando in termini di ore terapeutiche (contrariamente a quanto avviene, ad esempio, in Puglia ed in Veneto).
Credo veramente che di strada ce ne sia ancora molta da fare, nonostante tutta la loro migliore volontà ed il loro indubbio impegno. Soprattutto, c’è un’infinità di strada da fare sul cammino della politica, perché il dialogo tra enti, il rispetto del cittadino, l’integrazione tra i sistemi ed i servizi divengano finalmente realtà e la presa in carico della persona – infine – davvero globale. Tutto questo indipendentemente dall’autismo. Ma da troppi anni (e con un trend peggiorativo) i nostri rappresentanti ad ogni livello sono eccessivamente impegnati in una costante campagna elettorale che ha perso qualunque connessione con la realtà a vantaggio di una continua ricerca di consensi e preferenze, come i bambini collezionano le figurine.