lunedì 5 settembre 2016

Volevo fare l'artista - Introduzione

Ho iniziato a interessarmi di materiali, strumenti e tecniche di trasformazione o rappresentazione della realtà fin da bambina. Avevo molto tempo da passare con me stessa e con i miei fratelli più grandi, soprattutto nelle lunghe estati vissute nella nostra tenuta in Val d’Orcia. Ad essere completamente onesti, ho vissuto letteralmente “immersa” in un clima familiare estremamente propenso sia alla techne sia alla tecnica (che da techne appunto deriva), cioè all’arte in ogni sua accezione ed alle sue “modalità attuative”. Naturalmente, era difficile per me bambina rendermi conto di questo, perché semplicemente pensavo che fosse una condizione normale; ovviamente, non avevo ancora maturato gli strumenti per comprendere quanta fortuna e quanto privilegio abbiano caratterizzato la prima età del mio sviluppo.
La mia era una famiglia ancora antica nei modi e nelle consuetudini. L’educazione di tipo “tradizionale” che prevedeva il clichè della nonna paterna – la "Oma", di chiare origini teutoniche - declinava per ogni giorno della settimana una diversa lingua in cui ci era consentito rivolgerci alle nostre Tate: il lunedì in italiano, il martedì in francese, il mercoledì in inglese, poi il tedesco e poi di nuovo l’italiano, il francese e l’inglese e, poiché il tedesco era in fondo l’unica lingua con cui ci era concesso parlare con la Gomama – era la sua lingua madre –poteva saltare un giorno della settimana.
Oltre ai vincoli linguistici c’erano altri confini all’interno dei quali dovevamo muoverci con un’attenzione ed una precisione felina. Vincoli di galateo, ovviamente. Regole rigide di comportamento e di rispetto dei ruoli “sociali” nella famiglia e con le persone che la frequentavano più o meno assiduamente o con i loro – talvolta per niente simpatici – figli e nipoti.
Tra le costrizioni di etichetta, c’era ovviamente lo studio delle belle arti, a cui i miei fratelli volentieri si sottraevano in ogni circostanza in cui la cosa fosse possibile. D’altro canto, mia nonna lasciava di buon grado che loro si ritirassero, poiché riteneva queste materie più consone ad un animo docile ed accogliente, tipico nei suoi piani di una ragazza a modo quale avrei dovuto diventare io. E pur essendo soddisfatta dei risultati che conseguivo negli studi di belle arti (ma per nulla in quelli musicali), guardava con minor buon animo all’attrazione che provavo verso le attività più propriamente artigiane che popolavano il borgo. Tuttavia, con la complicità dei miei fratelli più o meno quotidianamente riuscivo a fuggire dal cancello che separava il “dentro” dal “fuori” e mi infilavo nella bottega del falegname, del fabbro o nelle stalle dei contadini per guadagnare quell’odore di campagna che ancora adesso – a più di sessant’anni di distanza – mi fa sentire straordinariamente “a casa”.
Per chissà quale motivo, bambine della mia età non ce n’erano al borgo, mentre c’erano orde di ragazzini con cui i miei fratelli facevano comunella. Anche io ho preso parte a diverse escursioni, ma il fascino più grosso su di me lo esercitava quel piccolo impercettibile filo rosso che collegava le arti più nobili - che studiavo ed esercitavo quotidianamente – ai mestieri più utili, che scandivano il ritmo della vita e della campagna.
Questo – va da sé – non ha fatto di me un’artista affermata né minimamente conosciuta; non ha fatto di me neppure una restauratrice di pregio, nonostante abbia passato tanto tempo nel mio laboratorio a restaurare, ricostruire e sistemare mobili. Il mio più grande museo sono i luoghi in cui vivo, letteralmente invasi delle mie produzioni pittoriche, scultoree e soprattutto delle mille realizzazioni strampalate che ho progettato e costruito e che nel tempo sono andate ad alimentare il mio “cosario”.
Mi trovo oggi ad un’età meravigliosa, la terza, in cui non è più necessario dover dimostrare a me stessa in nessun modo di essere qualcosa, perché posso guardare indietro con indulgenza al mio passato, per valutare bonariamente ciò che sono stata e conseguentemente ciò che sono diventata. In fondo, buona parte della vita mi ha graziato permettendomi il lusso di coltivare le mie passioni senza l’esigenza di particolari apprezzamenti o elogi, se non quelli che privatamente mio marito ed i miei figli ancora mi riconoscono, non senza un pizzico d’affettuosa ironia.
Ma questa età mi consente la saggezza, guardando ai miei nipoti ed ai loro amici, di ri-innamorarmi di quel filo rosso e di vedere quanto poco d’arte e di creatività quotidiana sia intorno a noi.
E mentre il web si carica di filmati DIY (un esortativo “fattelo da te”), viene considerato normale dover comprare un kit per fare qualunque cosa, come se prima dell’avvento di questi kit la conoscenza fosse custodita gelosamente al pari della messa in latino.

Da nonna e prozia quale ormai sono, in tanti anni ho condiviso con le nostre nuove generazioni familiari sprazzi di quella conoscenza. Così, questi anni di insegnamento “informale” mi hanno spinto a pensare di farlo anche con un pubblico più ampio, passando alcune tecniche basilari, alcuni trucchetti, alcuni progetti che possono essere facilmente realizzati, per riappropriarci di una dimensione più umana della creatività e dell’arte, senza schifare i prodigi che il progresso tecnologico ci ha messo a disposizione. Nel frattempo, tra vecchi ricordi rispolverati e piccole nozioni, incamminiamoci perché ciascuno può essere creativo, anche senza dover essere famoso.

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